A quel tempo ero preso dalla passione per il restauro, ma disponendo di pochi mezzi, frequentavo il mercatino delle pulci, al Papireto. Alla fine degli anni Cinquanta e parte degli anni Sessanta vi si trovavano oggetti interessanti e a prezzi modici. Cercavo in particolare vecchie tele e vecchie cornici, di solito scartate dai compratori perché necessitavano di un elaborato e costoso restauro.
Ciò spingeva i venditori a cederle per poco. Con molta pazienza e maestria, nel mio tempo libero, le risuscitavo; non era difficile, poi, trovare acquirenti e patiti dell’antiquariato. Nel tempo, feci amicizia con gran parte dei frequentatori del Papireto e con tutti i gestori. Molto spesso incontravo una vecchietta vestita in maniera antiquata, arzilla e taciturna, che si aggirava con fare frenetico. Sceglieva di tutto, anche gli oggetti più strani, era chiaro che non avesse alcun progetto, lasciandosi piuttosto guidare dall’estro del momento o dall’emotività.
Arzilla e sgusciante saltellava da un punto all’altro dell’ampio salone
Vecchi lumi, orologi di ogni foggia, ceramiche, mobili e perfino scatoloni ripieni di vecchie foto. Con i frequentatori ci chiedevamo cosa se ne facesse di tutti quegli oggetti. Non dava confidenza a nessuno e non ci degnava neanche di uno sguardo. Dopo aver pagato, faceva segno a un anziano tassista che, con aria paziente, attendeva all’altro lato della strada. Questi, poi, caricava tutto, apriva lo sportello dell’auto e la aiutava a salire. Un giorno, mosso dalla curiosità, chiesi al rigattiere chi fosse
questa cliente, verso la quale usavano molto riguardo. Questi, con espressione meravigliata, rispose: «Ma come, non la
conosce? Questa signora è una nobile, è marchesa.»
Chiesi come si chiamasse, ma lui non si ricordava, si affacciò alla porta e domandò al collega dirimpettaio: «Totò, come si chiama ’a marchisa?» E l’altro: «Come, non lo sai? Si chiama Acquachiara ». «La marchesa di Acquachiara si onora di invitare la S.V. alla mostra di beneficenza, che avrà luogo a palazzo d’Acchito, il 21 marzo alle ore 19,00». Gli ampi locali accolsero una folla della buona società locale. L’età della maggior parte del pubblico oscillava sui sessanta. Baciamani e inchini si sprecavano. La marchesa vestiva un soprabito di merletto scuro, un cappellino piumato anni trenta, al collo una doppia fila di perle forse coltivate.
Arzilla e sgusciante, saltellava da un punto all’altro dell’ampio salone. Minuta, un fascio di nervi, scattante come una molla.
Occhi azzurri e penetranti. Sembrava un direttore d’orchestra, per tutti aveva un sorriso, una parola.Negli ultimi tempi la si incontrava dappertutto, conosceva tutti quelli che avevano fatto grana e a farli sganciare lei era maestra.
Era contesa da antiquari, trafficoni e avventurieri, che in lei trovavano una spalla validissima. Bastava che dicessero ai loro clienti: «Questo pezzo proviene da casa Acquachiara» che il miracolo era compiuto. Anche un’ignobile crosta o l’oggetto
più scialbo acquistavano un alone di leggenda. La marchesa era l’ultima discendente di una nobilissima famiglia siciliana. I suoi antenati si erano distinti fra i crociati più intraprendenti, ma nell’ultimo secolo il patrimonio di famiglia si era disintegrato e
gli ultimi spiccioli i suoi antenati li avevano buttati fra casini e casinò. Un fratello da un decennio vegetava in una casa di riposo: era stato rinchiuso e ben sorvegliato, dopo un’ennesima strage di automobili in un crocevia del centro. Quando lo assaliva il raptus, inveiva con il suo bastone sulle auto in transito. Si fermava al centro e gridava come un ossesso: «Qui non passa nessuno! Sono il marchese di Acquachiara.» E giù colpi sui para brezza. Più di una volta, grazie alla prontezza dei vigili, era stato salvato da furiosi pestaggi. Continua …
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