Intervista a Dario Battaglia, attore teatrale bagherese

Un pensiero dedicato ad Andrea Camilleri

Dalla Città delle Ville al Teatro Argentina di Roma, passando per Siracusa, dove ha calcato l’antica scena del Teatro Greco, la carriera di Dario Battaglia, giovane attore bagherese, si è rivelata sin da subito brillante e fa ben sperare in una felice continuazione. Diplomato all’Accademia D’Arte del Dramma Antico (A.D.D.A.) dell’INDA di Siracusa nel 2016, sotto la guida del suo Maestro Mauro Avogadro, Dario Battaglia ha continuato la sua formazione al Teatro Laboratorio della Toscana di Federico Tiezzi nel biennio 2016-2018, per proseguire successivamente, alla Scuola di Teatro e Perfezionamento Professionale del Teatro di Roma.
Il Settimanale di Bagheria ha voluto incontrare questo giovane talento bagherese per un’intervista che siamo lieti di pubblicare.

Dario, come è nata la tua passione per il teatro?

È nata come nasce nella maggior parte dei miei colleghi, cioè da bambini, quando ci si diverte a “giocare a fare qualcun altro”, ad essere un personaggio. Molti dei registi con cui ho studiato o lavorato, non a caso, hanno insistito con questo strano “caso linguistico”: nelle altre lingue, in inglese, o in francese ad esempio, il verbo “recitare” coincide con il verbo “giocare” (to play, jouer). Dunque, la condizione di partenza della recitazione è quella di un “gioco”: l’attore deve tendere verso quella prima forma di curiosità giocosa con la quale un bambino inizia a scoprire il mondo che lo circonda.

Quale genere teatrale ti attrae maggiormente?

Avendo studiato alla Accademia del Dramma Antico di Siracusa, chiaramente, all’attivo le esperienze sono molte di più sul campo del teatro greco classico. Ma una volta uscito da scuola, ho subito affrontato il teatro nella sua interezza, autori di ogni epoca, genere e stile, oltre a degli esperimenti drammaturgici di varia natura.
Sicuramente il genere teatrale che suscita maggiormente il mio interesse è il Teatro Borghese dell’800, rappresentato da autori come il russo Anton Cechov, il norvegese Henrik Ibsen, oltre al nostro Luigi Pirandello: mostri sacri le cui opere sono delle vere e proprie lenti di ingrandimento con cui indagare tutte le più grandi contraddizioni dell’animo umano.

Nel tuo lavoro ti cimenti in diverse abilità, oltre la recitazione, come la danza ed il canto. Come riesci a gestire questa tua caratteristica virtuosa?

In realtà si tratta di una peculiarità che ogni attore dovrebbe possedere; per fortuna, la Scuola dalla quale provengo mi ha formato anche per il lavoro corale. Uno studio determinante questo, sia per la possibilità di potersi esprimere con più forme d’arte contemporaneamente – dal momento che i coreuti devono saper recitare, muoversi sulla scena e molto spesso devono anche danzare e cantare, nello stesso momento, e credo che per un attore non esista nulla di più appagante -, sia perché il lavoro corale insegna pedissequamente l’ascolto dell’altro, lo stare insieme ad un gruppo che è moltitudine e singolo al tempo stesso: recitare all’unisono con altre diciannove voci credo sia stata una delle cose più belle che io abbia mai fatto.

Hai già lavorato con alcuni tra i più grandi registi del teatro italiano. Quale fra questi consideri il tuo maestro?

Il Maestro è quella figura al cui insegnamento si aderisce tout court quasi d’istinto, in una corrispondenza grazie alla quale è come se si comprendesse immediatamente che quello è il nostro posto nel mondo (artistico, in questo caso). Fermo restando che qualunque incontro costituisca un’occasione per imparare – anche quando sembra che non sia così -, mi considero figlio artistico del Maestro Mauro Avogadro. Ricordo chiaramente quando, i primi giorni di scuola, ci parlò di “Casa di Bambola” di Ibsen, di cosa fosse per lui la recitazione, e subito compresi che quello sarebbe stato ciò che avrei inseguito per tutta la vita.

Già durante il primo anno di Accademia, Avogadro mi scelse per un ruolo da protagonista in un suo spettacolo, che debuttò fra l’altro nell’Area Archeologica di Solunto nel 2014, scritto da Gaetano Balistreri, attore e drammaturgo di Aspra.
Sotto la guida di Avogadro, insieme a lui e ad altri giovani colleghi, ho fondato una compagnia teatrale, la Compagnia RDA, con lo scopo di diffondere il più possibile il Teatro di Parola la cui tradizione, ultimamente, si sta perdendo. Il Maestro Avogadro è uno dei più grandi depositari di questo genere teatrale, nel territorio nazionale.

Ad oggi, dopo questo sodalizio artistico che dura da sei anni, lo considero non solo un Maestro d’Arte, ma anche di vita; forse è questo il vero miracolo del Teatro: unire le persone attraverso la bellezza di quest’arte che indaga la vita.

Che consiglio daresti ad un giovane che intende seguire la carriera teatrale?

Secondo me occorrono due cose, fondamentalmente: una parte di incoscienza ed anche una buona dose di ragionevolezza. Bisogna essere molto incoscienti nel senso che si devono accogliere tutte le sensazioni, suggerite quasi istintivamente, dal desiderio di recitare. Allo stesso tempo, però, non bisogna mai dimenticare che tutto questo può comportare dei rischi seri. A mio avviso, la consapevolezza dell’essere un attore, quindi, deriva da questo “compromesso” fra emotività e ragione che ci prepara per sfidare tutte le avversità che tale lavoro comporta. Solo così si può essere veramente motivati, non necessariamente per seguire la strada del successo brillante, piuttosto quella dell’occupazione, che è una via ad oggi molto impervia nel nostro Paese.

Adesso vivi a Roma, dove si svolge la maggior parte della tua attività, tuttavia torni spesso a Bagheria. Fai parte di compagnie teatrali del nostro territorio?

Sì, a parte la già citata Compagnia RDA, che opera molto in Sicilia, specie nelle aree archeologiche e nei teatri antichi, faccio anche parte della Compagnia Décalé, diretta dall’attore-regista ennese (ma ormai trapiantato a Palermo da anni) Andrea Saitta. Il nostro lavoro di punta è “La Locandiera – Esprit de pomme de terre”, vincitore del Festival Internazionale di Regia Teatrale “Fantasio”, a Trento nel 2017; una rivisitazione del capolavoro goldoniano in cui Clown, Mimo, Teatro Circo, Teatro di Parola, Commedia dell’Arte e Danza si fondono per dare corpo ad una vera e propria magia. E’ nostra intenzione portare questo spettacolo anche in Sicilia.

Vittima dunque anche tu del fenomeno della “fuga dei giovani” dal sud e, come te, tanti altri illustri concittadini in ogni tempo: qual è la tua opinione in merito?

Lasciare la Sicilia, Palermo prima e Ortigia poi, è stato un autentico colpo al cuore; lo spostamento a Roma, metropoli infinita alla quale è difficile abituarsi, traumatico. Insomma, sarebbe bello poter inseguire i propri sogni nel proprio luogo natio, ma non sempre ci si riesce, specie se si tratta, come nel mio caso, di un mestiere artistico. Quello dell’attore è poi, di per sé, un mestiere non fisso, fatto di continui spostamenti in lungo e in largo.

Dunque, alla rassegnazione nei confronti di quella che può sembrare una fuga, si può rispondere con l’idea di un ritorno utile. Magari, l’unica soluzione è quella sì di partire, di andare fuori, di riuscire, ma sempre avendo in mente il ritorno ciascuno nella propria casa, nella speranza di instillare un germe di interesse che possa aggiungere un altro, piccolo tassello, nell’ intricato mosaico dell’interesse per l’Arte e la Cultura .

La recente scomparsa di Andrea Camilleri ha lasciato in eredità, una visione originale della Sicilia, dove emerge una grande ironia, ma anche una lezione d’umanità. Qual è il tuo parere?

Io ho conosciuto Andrea Camilleri, ancor prima che dai suoi libri, dai racconti dei miei Maestri: questi era, anche da insegnante, quella persona che tutti abbiamo amato e ammirato: una persona semplice. Il vuoto che Camilleri lascia è la tragica mancanza di un intellettuale sul quale adesso non possiamo più fare riferimento nel panorama Nazionale, proprio in un momento assai critico dal punto di vista sociale e politico; un vuoto che acuisce l’enorme distanza tra un popolo disorientato e una classe intellettuale sempre meno in auge. Ricordo “La Conversazione su Tiresia”, scritta e interpretata dal Maestro, che è stata messa in scena al Teatro Greco di Siracusa nel 2018: esattamente come Tiresia, il cieco Camilleri, interrogandosi sul senso dell’eternità e della verità, illuminò le coscienze di migliaia e migliaia di spettatori con una luce destinata a brillare ancora per molto – se sapremo sostenere il peso della sua eredità.

Quali saranno i tuoi prossimi lavori teatrali ed i tuoi progetti futuri?

Nell’ottobre del 2019 sarò in scena al Teatro Torlonia di Roma con “Felità…Tà…Tà” per la regia di Massimo Di Michele: uno spettacolo costituito da 11 atti unici di Achille Campanile immersi dentro lo sterminato repertorio del Varietà televisivo e teatrale degli anni ‘70. Da gennaio a marzo 2020, sarò in tourneè in tutta Italia con il “Faust” di Goethe, con la regia di Federico Tiezzi, spettacolo che ha già debuttato al Teatro Metastasio di Prato, nel mese di maggio.
Una speranza futura, più che un progetto: quella di poter finalmente riavere un Teatro a Bagheria.

Nicola Scardina


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