La pittura di Giovanni Varisco è un genere di arte naif, essa non nasce da alcun rapporto con le correnti attuali dell’arte contemporanea, tale arte, per così dire, è ingenua, ma questa ingenuità è il terreno fertile, da cui fiorisce quel dischiudimento, quello sbocciare, che è l’apertura di un mondo.
Il mondo non è la rappresentazione dello stesso, del già detto e raffigurato, bensì il sorgere di un un’alba, che è l’inizio di un nuovo giorno per l’avvento del mondo che solo così diviene.
La rappresentazione del mondo in arte se vuole essere tale e costituire un mondo, deve azzerarne le visioni precedenti per il sorgere di una Weltanschauung che certo si rappresenta anzitutto alla coscienza e che metafisicamente ne fa un nuovo mondo. Per la costituzione di esso l’ingenuità non può non costituirne il fondamento, per questo essa acquista valore per la nostra valutazione.
Pertanto dobbiamo essere grati a Giovanni Varisco per averci fornito
del materiale pittorico da prendere in considerazione. Infatti nella sua pittura, a volte, selvaggia assistiamo ad uno sprigionamento di
forze occulte, che vogliono prendere forma, senza tuttavia mai lasciarsi afferrare. Qui sta il meglio della sua produzione, che invece in momenti in cui la tensione artistica sembra scemare, questa stessa produzione scade
nella banalità dell’inautentico raffigurare dovuto non a un abbassamento di livello di coscienza, ma al contrario nel suo innalzamento, dove la chiarità del giorno ha il predominio.
In parole povere quando Varisco si adegua ad una rappresentazione,
conforme ai canoni normali richiesti da una moderazione di un
modo di vedere comune a tutti, scade nell’anonimità. Per questo possiamo definire esistenziale la pittura di Varisco, soprattutto quando emerge da questa anonimità, pur costatando che da questo uscire dal conformismo che spesso la uniforma, questa pittura non afferma la soggettività bensì al contrario il suo scomparire nell’emergere dell’Altro inquietante.
Da quanto detto affermiamo che l’esistenzialismo pittorico di Varisco non è un umanismo, una affermazione della soggettività dell’uomo, giacché da questa sua pittura originale vien fuori non un emergere di un soggetto, di un io, che si rappresenta, ma l’emergere di forze, di pulsioni che vengono al contrario a turbare, a scompigliare il soggetto umano, inducendoci a domandare che cosa qui in effetti viene rappresentato. Varisco che è anche uno scultore della pietra mostra in questa sua arte la stessa problematica, perché da un unico blocco di pietra scolpita fa emergere spesso non una ma
due o più teste, ossia fa emergere una inquietante “pluralità” che
contraddice l’unicità del soggetto.
In un articolo che abbiamo scritto per Varisco, riguardo solo alla sua scultura, abbiamo asserito un’ipotesi certo assai bizzarra, ma che qui non può non essere presa in considerazione. L’ipotesi da noi avanzata era che Varisco nel dare anima alle pietre, da lui scolpite, tendeva a introdurre in esse più spiriti, che come si sa sono legioni. Questo introdurre però va meglio inteso come un estrarre, perché essendo tutta la natura animata, anche le pietre possiedono un’anima che però in esse è imprigionata.
Da qui il richiamo, l’esigenza avvertita dallo scultore, della loro liberazione.
Lo scultore venendo qui inteso magicamente non come, comunemente si crede, un artista che dà forma, col suo scolpire ad un materiale informe, ma come una sorta di levatrice, nel senso letterale, che libera, aiutandoli ad uscire, lo spirito o gli spiriti nella pietra imprigionata.
Varisco noi lo abbiamo inteso come un artista premoderno, che poco ha a che fare con la nostra attuale mentalità, un artistamago che ancor oggi risente di un clima culturale che dominava nella cultura contadina, orientata, nell’alternarsi delle stagioni, a seguire il ritmo di una natura, che
ne costituiva l’anima. Quell’anima che tutti indistintamente possediamo anche le pietre, che però l’hanno in essa imprigionata. Questa concezione magica- animistica è anche nella sua pittura, a volte espressa con toni assai accesi, solo che in essa, abbiamo il sentore di una presenza inquietante, cieca, che non solo non si lascia catturare, ma che si prende gioco di noi. Di che cosa si tratta?
Difficile definire questa entità. Forse potremmo alludere ad essa
tirando in ballo l’es.
Ma credo che anche questa nozione ormai da troppo abusata per
definire l’inconscio, non sia adeguata. Ma da qui ci viene un sospetto ossia che in profondità all’es ci sia un altro es che non si lasci portare alla coscienza, ossia che non si lasci rappresentare né dall’uomo né dall’artista, ma che si prenda gioco di entrambi. Questa terribile scoperta di Varisco di un’entità inafferrabile e che si prenda gioco di noi, per quanto non seducente sta alla base della verità della sua arte, una verità disturbante, che però ne costituisce la profondità, che non si può definire certo un’originalità, quantunque essa ci porta alla costatazione di un’origine dalla nostra coscienza non accertabile. Questa origine, sia pure non certamente in aspetti inquietanti, la ritroviamo in quelle che l’artista chiama “Pennellate di Giovanni Varisco”.
Pennellate perché in esse non ci sono cose o figure rappresentate. Queste pennellate sono dunque una pittura astratta, ma in essa l’astrazione, da intendere come una non rappresentazione, non vuole astrarre dal soggetto della stessa rappresentazione, come se l’artista in essa smarrisse la sua identità, la sua soggettività datagli dal nome.
Giovanni Varisco di fronte alla sua pittura inoggettivabile, non per
vana gloria, esibizione e quant’altro, si appiglia al suo nome proprio, come unica certezza di fronte all’insondabile, che la sua arte
migliore, il suo operare apre.
Piero Montana
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