Gli alberi di limoni della Chiana di Ficarazzi e per la maggior parte di Bagheria e Misilmeri si ammalarono intorno alla metà degli anni 60: la causa era il miele, era la formica argentina, erano tutte le maledizioni che Dio aveva mandato su questa terra che non ha mai pace e il malesiccu attaccava le piante, ne seccava i rami e le uccideva.
La disinfestazione mediante l’arruciatina col “605” e “l’oliofoss” e tanti altri veleni riuscì in parte a fronteggiare il male, ma di contro cominciarono a morire tutti gli uccelli. I pettirossi cadevano come i pira dall’albero, i merli gracchiavano note malaguriusi nere come il loro colore, solo i cardellini, come se fossero benedetti dalla mano del Signore, sopravvivevano ai
veleni e nelle campagne il silenzio era rotto dalle cantate degli uomini
all’”anto” e dal cinguettio dolce e allegro dei cardellini.
Ma… quell’estate la passavo tra la macchina dell’acqua e il cantiere della
costruenda autostrada. Mi dispiaceva molto osservare le pale meccaniche bucavano e alzavano la terra rossa, rompevano radici centenarie, abbattevano gigghiate, catusi, pozzetti, muretti e tiravano diritto, i camion scaricavano ciaca e brecciolino, gli operai montavano tondini di ferro
e i pilastri s’innalzavano in alto.
Il viottolo che mi portava giù era stretto stretto, passavo tra due ali di bastardoni che pinnuliavanu dagli alberi e che brillavano al sole rosso come un’arancia; arrivato alla gebbia del “Presidenticchiu” Bisconti, mi buttavo tra i troffi di pomodoro e coglievo quello più maturo, sapeva ancora di zolfo, poi mangiavo un poco di racina e dei fichi dall’albero granni dietro la macchina dell’acqua, all’ombra della saia ascoltavo le canzoni dei Nomadi e dei Rokes e leggevo Blek e Capitan Miki, sentivo nell’aria che qualcosa stava cambiando, era una delle ultime estati innocenti e senza
pensieri che mi scorreva lenta e piena, in campagna con mio padre
che correva sempre dietro all’acqua, da Ferreri alla Vorica, i bagni alla Crocicchia con i picciotti, poi da Turiddu al salone da barba e le interminabili partite di pallone al Chiano, fino a quannu scurava.
Uno di quei giorni che tampasiavo dalle parti del Cantiere dell’autostrada,
nei pressi della casuzza del Commendatore don Pietro Tralongo, la mia attenzione fu attirata dagli “aciddara” che acchiappavano i cardellini, avevo il cuore morto…questi venivano attirati dal richiamo, che era di un altro uccellino, appena si posavano, l’orco cattivo tirava la rete e i cardellini venivano catturati.
Poi i cardellini acchiappati venivano stipati nelle gabbiette di legno e venivano esposti e venduti nelle piazze, giù a Palermo. Addirittura raccontavano che acchiappavano i “nuvidduna”, cioè i pulcini di cardellini catturati nei nidi e adattati ad essere allevati nelle gabbie e spesso utilizzavano una femmina di canarina usata come balia. Nel tardo pomeriggio, quasi alla scurata, scesi in paese e andai nel salone da barba dello zù Giuvanninu u “sciccaru”, lui mi conosceva perché io facevo le saponate da Turiddu e certe volte, quando la “curria”, la striscia di pelle che serviva per ammolare rasoi e forbici era rotta, mi mandavano da lui che ne aveva una come la nostra.
Sapevo che allo zù Giuvanninu ci piacevano gli uccelli, il salone ne era pieno, gabbie a non finire, uccelli che cantavano, sembrava una uccelleria quindi gli raccontai quello che avevo visto in campagna. U zù Giuvanninu, con la barba bianca sempre lunga, l’immancabile Alfa, che svampava con una puzza che impestava l’aria, seduto sulla sedia davanti allo specchio,
con il salone vuoto, mi taliò e mi disse:-…”talè Pinò assettati ca ti cuntu una storia. Io attia ti canusciu, sacciu a ccù appartieni, ccù to nannu pigghiù tabaccu, nni to patri pigghiù l’acqua…lassa perdiri sti genti…”. Io, picciriddu ancora senza pilu, ascoltai senza fiatari. “…devi sapere che il canto del cardellino è dolce, è bellu, e che il cantu del cardellino accicatu è ancora cchiù bellu, cchiù strazianti, tantu strazianti da scummigghiari puru i cori di pietra.
Ecco picchì i venditori dei cardellini non si fannu tanti pinseri e con uno spillo cavuru bucanu a pupilla del cardellino prigioniero. Poi, nelle piazze, al mercato, a Ballarò, lo vendono più caro. E’ là che si deve andare per trovare un cardellino da mettere nella gabbia sano e che non vede. Trafficanti di ali, se li vuoi vedere, arrivano la domenica matina all’alba e abbannianu anche se sanno che il cardellino è specie protetta, che è reato venderli, ma loro se ne fottono picchì non ci dici niente nessuno”.
Dentro il salone, nelle gabbiette gli uccelli dello zù Giuvanni cantavano
sopra la musica e la canzone che veniva dalla radio messa sulla balata di marmo, cantava Domenico Modugno, “Libero… sono libero…”. Don Giovanni mi taliò ancora e mi disse:-“…eh no, piccirè nun mi taliari raccussì, qua uccellini orbi non ce ne stanno, io non li pigghiu…lo sacciu che è triste ma questo problema c’è sempre stato e non ci possiamo fare niente, perciò lassa perdiri e non ci pinsari cchiù…”.
Uscii dal salone come un cane bastonato e quella notte, afosa, silenziosa, stufficusa, non riuscii a pigghiari sonno. Anche mio padre in campagna, assittati sotto il pergolato mi consigliò di non pensarci più, tanto “il mondo è sempre andato così”…Ma non mi davo pace, pensavo a Ballarò, al lamento
struggente del cardellino accecato, che vive assurdamente una storia di dolore, di sangue e di gabbia.
L’occasione di Ballarò arrivò una domenica mattina. Totuccio il “Sbardella” caricava il pane nella Lapa della Melchiorre e lo portava alla Legione dei Carabinieri a Palermo. Quella mattina m’incarrozzai anch’io sulla Lapa e dopo aver scaricato filoni, vastelle e vastelloni alla Legione, al ritorno passammo da Ballarò, il mercato della domenica, c’era di tutto, biciclette, scarpe, vestiti, ruote, tagliaerbe, frutta, pane, motorini, e all’angolo una
fiat 127 rossa, malacumminata, il cofano di dietro alzato e lui lì, l’uccellaro. “…cantanu, cantanu, avemu u patri e a matri, sulu trentamila tutti e tre…”.
La gente passava, guardava e tirava avanti, forse la pensano come me, che li vorrei comprare tutti, aprire le gabbie e farli volare via su nel cielo azzurro, verso il sole rosso come un’arancia. Ogni tanto, quell’uomo dallo sguardo cattivo, dall’occhio strabico, un po’ zoppicante, infilava la mano nella
gabbia granni, ne afferrava cinque, sei, qualcuno stonato lo schiacciava
col pollice e lo buttava sotto la macchina, qualche altro lo infilava in un sacchetto e lo vendeva per dieci mila lire.
Gli altri uccellini cinguettano, sembra che piangono, non c’è uno spicchio
di cielo azzurro nella voce del cardellino senza sole. Totuccio mi chiama, a passo di gambero, guardando quelle gabbie, quella macchina, l’orco, risalgo sulla Lapa, il ciavuru del pane e della giuggiulena mi acchiana per il naso, mi volto, calo gli occhi, li rialzo, siamo alla stazione, penso, penso, penso, arriviamo a Ficarazzi.
Il pranzo di domenica, pasta con salsa e melenzane, carne arrostita,
lattuga e pomodoro, i cannoli da Falcone, lo stradone vuoto, il silenzio,
il cinema Odeon, o l’Arena di don Ciccio, poi uno sguardo dal di fuori da don Ciro, i bigliardini, il gelato e la giornata è finita, ma domani…E’ giorno, campagna, nnì Ferreri, ai Quattrociocchi, la macchina dell’acqua canta, gli uccelli cantano pure. Salgo per il viottolo, arrivo all’autostrada, gli operai, i camion,il commendatore, u zù Tatò Domino, u zù Cicciu Pedone, Vincenzino Pace, Caffarella, Vicè Lo Verso, la casuzza di lanna, la rete per gli uccelli
è lì…la rete già…prendo il coltellino, lo apro, taglio la rete, la strazzo tutta, gli uccellini volano via, liberi, volano alti, cinguettano, cantano, gli occhi sani, non bucati e cantano felici; discendo dalla timpa, u zù pippinu Greco, che ha visto la scena mi guarda, è vecchio, ha i capelli bianchi, sulla camicia spicca un bottone nero come la coppola, sorride, guarda il cielo pulito, gli uccelli volano alto, mi talìa e alza la mano ossuta, ancora piena di forza, mi saluta e poi ripigghia la trazzera per “Lignovirdi”, anch’io ripigghiu la
trazzera e taglio per l’autostrada, ah già dimenticavo, l’autostrada, alberi sdradicati, terra rossa, cemento, ponti, operai, camion, rumori, clacson, eccoli sono arrivati, la pace è finita!.
Giuseppe Morreale
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