“Quando incontrai il poeta Giacomo Giardina” di Salvatore Mantia

Il mio primo incontro col poeta Giacomo Giardina avvenne quasi per caso, ma già da tempo avevo desiderato incontrarlo di persona, proponendomi di andarlo a trovare a casa sua a Bagheria.

Un pomeriggio di agosto, infatti, andai a Bagheria per visitare il laboratorio dei fratelli Ducato, famosi pittori di carretti siciliani. Dopo la visita presso i Ducato, approfittai del luogo e del tempo rimastomi per andare a cercare, più che trovare, il poeta Giacomo Giardina. Non sapendo dove abitasse né dove trovarlo, cominciai a domandare a qualche passante se sapesse indicarmi dove avrei potuto trovare il poeta.

Nessuno, né in corso Umberto, né in corso Butera seppe darmi risposte chiare e precise; anzi, insospettiti e incuriositi del mio dire, molti rispondevano alle mie domande con altre domande del tipo: “E perché lo vuole sapere?” o “Ma lei chi è?” oppure “Ma come mai cerca Giardina?”

Dopo vari tentativi, entrai in negozio di autoricambi, e lì qualcuno mi disse che il poeta “se la faceva sempre bar bar”, cioè frequentava parecchi bar della cittadina.

Quel giorno le mie ricerche furono vane. Non trovai il poeta lasciai Bagheria con l’intento di ritornarvi l’indomani per continuare la mia ricerca. Era una vera e propria caccia all’uomo!

Ritornai ad Altavilla Milicia, paese in cui trascorrevo, e continuo ancora a trascorrere, le vacanze estive.
Il giorno dopo, mi trovavo presso il belvedere panoramico di Altavilla per scattare le ultime foto rimaste nel rullino della mia Contax. Avevo, infatti, esaurito gli altri scatti nel laboratorio dei Ducato. Ero in compagnia di Loredana, allora mia fidanzata, quando, come per miraggio, vedo un vecchio seduto al tavolinetto del vicino bar.

“Lory, c’è Giardina – dissi – mi sembra lui!” Conoscevo già il volto del poeta, perché, qualche volta, l’avevo visto in tivù. Un libro sul Futurismo in Sicilia, da me allora scovato per caso in una bancarella a Palermo, portava a corredo alcune foto che ritraevano quel poeta alto e magro.

Ci avvicinammo. “E’ lui”, dissi fra me e me, dopo averlo osservato bene da vicino. Ci avvicinammo ancora e con atto risoluto mi sedetti vicino a lui nell’altra sedia che c’era. Loredana volle sua sponte restare all’impiedi. Egli fece cenno di alzarsi per cederle il posto dicendo: “C’era lei – rivolgendosi a Loredana – in questo posto? “Stia comodo” fu la risposta.

Io mi presentai dicendo di essere un professore di lettere e di avere sentito parlare molto di lui.
Egli si meravigliò e guardandomi in faccia coi suoi occhi azzurri da novantenne e più, con tono umile mi disse: “Così giovane? “
” “Ho trentun anni, maestro”, replicai io.

Lo guardai bene, osservando il suo volto e i suoi abiti, che sapevano di povertà, quasi vagabonda, e di solitudine. Alto e magro come una canna al vento aveva la barba non rasata, naturalmente bianca, incolta e sudicia. Era calvo ed era sudato.
“Certamente – pensai – abiterà da solo senza nessuno che gli faccia compagnia, senza nessuno che gli lavi le camicie.” Sotto la vecchia giacca di color salmone indossava infatti una camicia ormai non più bianca, dal colletto molto liso e macchiato – credo – di caffè.

Dopo questa breve conoscenza, gli dissi se era possibile rivederci con meno fretta, dato che egli attendeva impaziente l’arrivo dell’autobus delle tredici per Bagheria. Gli dissi che volevo mostrargli alcune mie liriche. A quei tempi, infatti, mi dilettavo a comporre fantasie poetiche simili a calligrammi. (Divertimenti poetici giovanili: oggi relitti arenati fra i miei ricordi, un poco sbiaditi, non navigando più nel mare della poesia).

Giacomo Giardina sembrò contento: mi diede un appuntamento: per l’indomani mattina presso un noto bar di Bagheria. Non finì di parlare perché l’arrivo improvviso dell’autobus lo fece balzare dalla sedia e correre, barcollando assai, come una lunga antenna di nave, verso l’atteso mezzo.
Io gli corsi dietro e mentre l’aiutavo a salire i gradini dell’ autobus gli dissi: “Maestro, allora, ci vediamo domani?”
“Alle due di pomeriggio è meglio”, rispose.

E chiuse le portine a soffietto, l’autobus subito sparì, con un volo futurista, imboccando il curvone del belvedere di Altavilla Milicia.

Puntuale mi presentai all’appuntamento. E puntuale egli si presentò. Non appena mi vide mi corse incontro. Snello, ma vacillante. Era vestito come il giorno precedente, ma – cosa che mi colpì subito – aveva con sé, a tracolla, una vecchia borsa da viaggio, azzurra. Una di quelle borse Alitalia che facilmente a quei tempi si reperivano. Dentro c’erano i suoi tesori e tutto se stesso: carte, fotografie, penne, sigarette e cerini.

C’era tutta la sua vita, c’era la sua storia: di pecoraio e di poeta.
“Andiamo in un caffè dove possiamo sederci – mi disse – dov’è la macchina? Lontano?” “Aspetti qui – risposi – la macchina è posteggiata in fondo alla strada. Vado a prenderla. Non si muova da qui.” A quei tempi avevo una vecchia Fiat 127. Blu, due porte. Particolare non insignificante poiché, essendo quest’ automobile non agevole nell’apertura dello sportello, dovetti faticare un poco per fare entrare in macchina il vecchio. Lo aiutai col braccio. Fattolo finalmente montare sull’ utilitaria, andammo in una rinomata gelateria del luogo, credo si chiamasse “Fantastico” o qualcosa di simile: posto dove egli volle andare. Arrivammo.

Siamo già seduti al tavolinetto, quando subito fummo all’attenzione dei clienti e dei lavoranti della gelateria, anche perché egli, premuroso di farmele vedere, uscì dalla borsa, mettendole alla rinfusa su quel tavolinetto, una quantità non indifferente di carte, libelli, varie cose, sigarette sfuse; insomma tutto quanto era contenuto all’interno della sua borsa Alitalia venne alla rinfusa rovesciato sul quel tavolinetto rotondo. Erano i suoi scritti, forse editi o forse inediti, molti dei quali tenuti in pietose condizioni: strappati in parte, mutili o macchiati pure di caffè, come la sua camicia. Le sue scarne mani tremavano. Con una certa difficoltà riusciva ad afferrare le cose. Alcune cadevano a terra: fogli e penne. E io le raccoglievo, riponendole sul piano del tavolinetto rotondo d’alluminio.

La sua borsa era una di quelle dell’Alitalia, ma non so se lui avesse mai volato. Quel giorno cominciò veramente a volare: nel cielo dei ricordi, in quella restante memoria che l’età gli permetteva ancora di esplorare, andando lontano, fin dove poteva arrivare. Tutto il resto apparteneva ormai al mondo dell’oblio.
Subito mi confessò di essere un gran bevitore di caffè e anche un gran fumatore. Fumava, le Nazionali senza filtro, credo. Fece atto di offrirmene una, io con la mani feci cenno per dirgli che non fumavo. Quasi quasi ci restò male. Lo intuii da una sua leggera espressione del volto.

Ordinammo poi un chinotto per me e naturalmente un caffè per lui. Gustò a lungo quel caffè, nonostante la sua mano tremasse non poco nel tenere la tazzina.
Credo avesse desiderio di parlare con qualcuno che lo ascoltasse. Mi riferii infatti che,già da tempo, nessuno in paese lo ascoltava più.

Mi parlò della sua vita, del suo esordio poetico e lodava, non appena l’argomento del discorso lo permettesse, il “padre” – come lo chiamava lui – ovvero Filippo Tommaso Marinetti, che lo aveva scoperto quale poeta e lo aveva introdotto nella galleria dei futuristi. Ma ci teneva a precisare, e più di una volta lo fece, che egli non era come gli “altri” futuristi: era un “futurista bucolico”, come si autodefinì: un poeta che era stato pecoraio.

Leggemmo insieme quante più sue poesie possibile, edite e inedite. Di alcune facevo difficoltà a comprendere il senso. Erano poesie liquide, parole e immagini “in libertà”: cieli limpidi o piovosi, oleandri, cunette, farfalle, pane, ramarri e tante altre immagini. In quei versi c’erano gli uomini e le cose della sua giovinezza: riaffioravano alla sua memoria, galleggiando in questo mare per un attimo per poi risommergersi sprofondando per non riapparire più. Erano fantasmi: solo lui poteva conoscerne l’essenza e l’esistenza.

Per un attimo mi fermavo a riflettere, cercando di entrare nel suo mondo, ma poi desistevo, poiché non ne vedevo l’utilità. Era uno sforzo inutile. Però annuivo con la testa, mostrandomi convinto di quel che si leggeva.
Mi mostrò parecchie foto che lo ritraevano in compagnia di Marinetti e, intanto che lo faceva, cercava di accendere un fiammifero minerva per la sigaretta che già da tempo teneva in bocca, tutta bagnata di saliva. La mano gli tremava così fortemente che il fiammifero gli sfuggiva ogni qualvolta che tentava di fregarlo sulla carta vetrata. Io non sapevo che fare, cercai di aiutarlo tendendo la mia mano per prendere il fiammifero e accenderlo, ma egli mi fermò e disse:
“E che minchia! Ci devo riuscire da solo”. E dopo alcuni tentativi ci riuscì: da solo. Fu soddisfatto. Mi disse poi che stava per scrivere un romanzo avente per protagonista. . . . “Indovina cosa? – rivolgendosi a me con un sorriso furbesco – E rispondendo alla sua stessa domanda, visto il mio indugio nel parlare, disse : ” La pazzia. . . così posso scrivere che cazzo voglio e nessuno mi può dire niente, la pazzia è libera.” E scoppiammo a ridere assieme. ” La pazzia. . . così posso scrivere che cazzo voglio e nessuno mi può dire niente”, ripeté con l’orgoglio di un uomo che si riteneva libero da vincoli.

A tal proposito mi raccontò con aria soddisfatta quando una volta era scappato dall’ospedale, toltasi la flebo dal braccio. Lo aveva fatto perché era “un uomo libero”, diceva. Ne parlava con orgoglio alterando il suo italiano al suo dialetto:
“A mia! A mia!… Mi vulevanu ‘nchiuriri o spitali! Ma io nasciu libero! Iddi u sannu?”
Lo sai perché sono scappato dall’ospedale? “
“Perché sono uno spirito libero, sono nato uno spirito libero – ripetè – e ho trascorso la mia vita in libertà, fra la natura…a mia vulevanu futturi!”

Lamentava il fatto che ormai in paese quasi nessuno lo considerava, a suo dire, “poeta vero” . Diceva che la sua fama era stata oscurata da un altro poeta dialettale che era diventato noto non per bravura ma per altri meriti. Io qui ne tralascio il nome. Lui lì non faceva altro che appellarlo con parole ingiuriose e parolacce alla buona. E tra una risata e un sogghigno: “Mi dicono che io non sono poeta”. E ancora ingiurie a questo o a quell’altro critico che di lui si era in passato occupato qualche rivista o libro. “Sti figghi ri buttana, disse con accento di stizza, dicono che io non sono poeta”.

A questo punto volle che gli mostrassi le mie piccole cose. Tirai allora fuori dalla mia carpetta e con una certa vergogna un quadernetto in cui avevo scritto delle stravaganti poesie, tra un vezzo giovanile e l’altro. Gliele mostrai. Lessi con voce dimessa, anche per evitare le occhiate e gli sguardi da marziano che il barista di tanto in tanto ci dava, quanto più ne potei, ma ormai appagato e sazio di quanto il vecchio poeta mi aveva letto e raccontato, non mi importava più nulla del mio quadernetto. Egli lo capì. Volle che io leggessi.

“Amunì, continua! E’ per confrontarci”, mi disse. “Io posso imparare da te e tu da me”, aggiunse mentre parlava con la sigaretta in bocca tenuta stretta penzoloni fra le labbra.
Continuai nella lettura e quando finii, egli afferrò il mio quadernetto e, tirata fuori dal taschino una biro della vecchia giacca marrone, in una pagina pulita volle, per ricordo di quell’incontro, scrivere un piccolo giudizio su quanto aveva appena appena ascoltato. Ciò mi gratificò. Ecco cosa scrisse:

Giovanissimo poeta insolito
direi anche sorprendente
Salvatore Mantia già ispirato agli astri
e ai fenomeni della natura moderna…
Si rivela futurista
Movimento ormai morto
ma col suo immaginismo lo farebbe rivivere
con sperimenti matematici visivi.
Spero questo mio giudizio possa felicemente
indirizzarlo verso una rivelazione,
grazie al grande Marinetti
creatore e ispiratore rivoluzionario.
Luglio 1993

Dopo, rassettate alla rinfusa le carte nella sua borsa, e avendo più volte controllato che tutto era nella borsa, ci avviammo verso l’uscita. Salimmo in macchina. Durante il tragitto gli feci notare che era agosto e non luglio, come aveva scritto nel mio quadernetto.

“E che vuoi che cambi, alla mia età!”, mi rispose. E aggiunse: “Luglio o agosto è lo stesso, non cambia niente.”
Volle essere accompagnato in un vicolo vicino alla gelateria. Mi salutò da vecchio amico dicendomi che gli sarebbe piaciuto rivedere i luoghi della sua giovinezza, i luoghi di quando era pecoraio: erano il bosco della Ficuzza, Godrano e Rocca Busambra. Mi chiese se ero disponibile ad accompagnarlo alla Ficuzza, dove, “sdraiato sopra un tappeto verde d’erba”, aveva letto Palazzeschi. E il bosco nella sua fantasia “immaginifica” era una città e i grilli mandolinisti suonavano col loro archettto mentre i rosignoli, poeti malati d’arte, cantavano canzoni d’amarezza. E grandi farfalle sopra uno specchio d’acqua annunciavano la stagione futurista per eccellenza: l’estate. “Un giorno, un giorno qualsiasi, un giorno a venire, presto – mi disse – andremo assieme alla Ficuzza.”

Lo seguii con gli occhi; lo vidi sparire alla mia vista, in fondo in fondo alla stradina, oscillando come oscilla una canna al vento. Con la sua borsa a tracolla. La sua Ficuzza nella mente, i suoi alberi-palazzi, e le sue formiche monache del bosco-città: quelle cantate nei suoi versi di quando era veramente un poeta futurista.

Era il mese di agosto del 1993. Non lo rividi più. Avrei voluto passare assieme a lui tante altre mattinate. Non seppi che fine fecero tutte quelle carte e tutte quelle foto che teneva in quella borsa azzurra. Erano foto in bianco e nero, di piccolo formato. Avrei voluto salvarle dal certo oblio.

Pagò lui il conto del bar (stavo per dimenticarlo!). Ci tenne a farlo. Un chinotto per me e un caffè per lui.
Non lo rividi più. Oggi lo immagino passeggiare lassù, sopra il cielo della sua Ficuzza, con la sua borsa azzurra a tracolla, contento di essere stato poeta pecoraio.



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