È trascorso un bel po’ di tempo da quando in certe zone di Bagheria hanno fatto la loro comparsa alcuni cartelli con il compito di sollecitare, seppur in modo parecchio eccentrico, il rispetto della raccolta differenziata. Non si trattava del solito pezzo di cartone sul quale un privato cittadino, stufo dei rifiuti gettati davanti casa sua, intimasse a caratteri cubitali di farla finita. Di esempi rudimentali del genere ne abbiamo a bizzeffe.
Ricordiamo il celebre “i porci come te gettano i rifiuti come te qui”, messaggio ormai rimosso da diversi anni ma che per molto
tempo è stato l’iconico benvenuto a chi entrasse in via del Fonditore dalla strada statale 113: tanto semplice quanto d’impatto, con quel suo piglio più da informazione che da divieto e quel “come te” rimarcato, capace di turbare anche la coscienza del più onesto e rispettoso tra i cittadini.
In tempi più recenti, invece, sembra proprio che l’assimilazione al regno suino di chi non rispetta l’igiene pubblica sia stata acquisita dalle istituzioni, per quanto ridimensionata nei termini. I cartelli apposti in quelle zone della città particolarmente assediate dai rifiuti, infatti, sono tutt’altro che “formali” nei loro contenuti. Potremmo definirli, anzi, parecchio pittoreschi. “Vastasu! Fai la differenziata” è un esempio. Alcuni di questi cartelli sono già stati rimossi, come quello affisso all’angolo tra
via Città di Palermo e via Milazzo, pericolosamente piazzato ad altezza d’uomo come a minacciare l’immediata decapitazione di
chi non rispetti le regole.
E comunque, oltre alla loro graduale sparizione, rappresentano ormai un argomento che, come tanti altri, ha attraversato le nostre menti per poi volare via senza quasi lasciare più traccia. Eppure, riflettere su quel vastasu “istituzionalizzato” (soprattutto a distanza di tempo) può tornare utile per comprendere certi aspetti del nostro modo di essere. Perché è innegabile che la raccolta differenziata va fatta, è pacifico che chi sporca le strade della città debba essere rimesso in riga.
Il punto è, piuttosto, quanto sia conveniente che una campagna di sensibilizzazione all’igiene pubblica che parte da gruppi che
orbitano intorno a un’amministrazione comunale, adotti gli stessi termini del libero cittadino che – giustamente – esige che nessuno getti i propri rifiuti nella sua proprietà. C’è da pensare che, nel caso del proprietario terriero, tanto più è veemente il linguaggio impiegato quanto più chiara è la sua irritazione e quindi la sua denuncia. Ma se a far uso della volgarità è un’istituzione pubblica? Questo rischia di annientare quella parte pedagogica che dovrebbe essere tratto fondamentale dell’azione politica? Di sicuro, un richiamo all’ordine che dia apertamente dell’incivile a chi finora quell’ordine l’ha violato sembra, più che un tentativo di rieducazione, un rimprovero che parte da un assunto: l’inferiorità intellettuale di chi non rispetta le regole, la sua incompatibilità all’educazione civica.
E dunque, a quel vastasu che tale è e tale rimane, non viene dato un precetto ma piuttosto un ordine superiore, come il comando impartito a un sottoposto. Una tendenza al sussiego che è tutta umana, quasi inevitabile nei rapporti tra
concittadini, ma che forse non è opportuna nel linguaggio pubblico. Senz’altro, esistono soluzioni al problema del rispetto
della raccolta differenziata più conformi all’etica democratica: da una maggiore rigidità e costanza di controlli e sanzioni,
a – banalmente – una segnaletica che non scada così facilmente nell’insulto.
Certo, si potrebbe obiettare che un linguaggio politico più vicino a quello quotidiano porta con sé il vantaggio di essere
compreso più facilmente. Ma per dirla con Roberto Gressi, che la scorsa settimana intitolava “Politica e linguaggio” un suo articolo per il Corriere della Sera: “Se si chiedesse a chiunque che linguaggio vorrebbe sentire da un politico la risposta sarebbe probabilmente sempre la stessa: parole semplici e chiare, univoche, oneste, non contraddette dai comportamenti.
Poi però il successo in politica arride a modi di esprimersi diametralmente opposti tra loro.” A tal proposito, Gressi rievoca – forse con un pizzico di nostalgia – la ricercatezza nell’eloquio di figure come Moro e Berlinguer. La questione dei cartelli con su scritto vastasu è solo un pretesto. Forse, una delle cose di cui abbiamo più bisogno oggi è smettere di sottovalutare la potenza del linguaggio. Il luogo in cui viviamo, i problemi che ci affliggono in quanto comunità e le possibilità che abbiamo di risolverli, non dipendono solo da un contesto fatto di azioni, scelte e comportamenti.
Dipendono anche dal linguaggio impiegato e dalla capacità di selezionarlo a seconda delle circostanze. L’avevano capito gli antichi filosofi con la loro esaltazione del lògos (“parola” in greco), nonché i più alti pensatori della religiosità come San Giovanni, che inizia il suo vangelo con “en archè en o lògos” (“in principio era il verbo” o “la parola”). Radici culturali, queste, che lasciano viva la speranza di azioni e scelte politiche che recuperino la sobrietà della comunicazione tra pubblico e privato, educando così a un maggior rispetto verbale e intellettuale in qualsiasi sede di confronto.
Gioacchino D’Amico
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