“Su villa Branciforti Butera. Il conte e la malinconia”

“Su Villa Branciforti Butera. Il conte e la malinconia” è il primo capitolo del libro ancora inedito di Piero Montana Bagheria
esoterica, che l’autore pensa di dare alle stampe al più presto, visto lo straordinario successo ottenuto dalla pubblicazione, da
parte dell’editore del Settimanale di Bagheria, di “Villa Palagonia.

Una decifrazione dell’incubo”, un altro importante capitolo di questa storia bagherese, che ha fatto raddoppiare in edicola le vendite della rivista, in quanto distribuito con essa. In questo primo capitolo Montana anzitutto svolge una serrata critica a quanti finora si sono voluti occupare della storia di Bagheria, giacché da loro svolta, in analisi tra l’altro del tutto provinciali e campanilistiche, con l’handicap della fuorviante mentalità moderna, che ha completamente rimosso una preesistente cultura ermetica-esoterica alla base degli edifici che sono stati nella loro interezza, prima di una sistematica distruzione vandalica, le nostre più importanti ville settecentesche.

Ma c’è di più. Montana oltre a mostrare in questo primo importante capitolo di Bagheria esoterica di essere molto addentro alla cultura ermetica, che in epoca rinascimentale conobbe uno straordinario sviluppo europeo, che si estese in secoli successivi fino ad essere definitivamente arrestato dal “sapere illuministico”. Mostra pure di avere conoscenze storiche- archeologiche di un certo rilievo ed importanza sul nostro territorio, che gli hanno consentito di fare delle scoperte, come vedremo, sensazionali. Del tutto carente nelle analisi storiche, finora fatte su questo nostro territorio, un esauriente quadro archeologico, geografico, storico viene ricostruito puntualmente e portato invece in luce da Montana in questo suo studio, che però si avvale a riguardo dei lavori di Carlo Citro, Santo Platino, Vittorio Giustolisi e del nostro compianto compaesano Francesco Lo Iacono Battaglia.

Un tale quadro, come abbiamo detto del tutto carente in altri autori, che addirittura occupandosi di Bagheria, non hanno ritenuto prenderlo in considerazione e questo forse per defettibile impreparazione culturale, costituisce pertanto il cuore del lavoro di Montana, che solo in parte segue la ricostruzione che ne fa Vittorio Giustolisi nel suo libro Cronia-Paropo- Solunto (1972). Nel suo interessante saggio storico archeologico Giustolisi ha essenzialmente messo in evidenza con molto acume e
chiarezza gli stretti rapporti nel nostro territorio tra la cittadella di Solunto e i siti archeologici di Monte Porcara e Cozzo Cannita, rapporti tali da far dipendere tutta questa zona da Solunto, giacché sul suo promontorio o nelle immediate vicinanze sorse un centro abitato sin da epoca arcaica, la Solunto di Tucidide?, scalo ed emporio marittimo della città di Paropo che sorgeva a 6 Km di distanza su Monte Porcara.

Col termine di Solunto non è escluso quindi che Tucidide si riferisse non solo allo scalo marittimo ma anche alla città di
Monte Porcara che doveva in un certo senso fungere da acropoli. Quando nel 397 a. Cristo il tiranno di Siracusa, Dionisio, secondo quanto riportato da Diodoro Siculo, saccheggiò e devastò la χωρα di Solunto in parole povere il suo emporio marittimo, i suoi abitanti, rifugiati temporaneamente a Paropo non appena ebbero l’agio e questo solo con la sconfitta dei Siracusani nel 383 a. Cristo, iniziarono l’edificazione di una nuova sede su Monte Catalfano, dove tuttora rimangono i resti della loro cittadella.

Questo per quanto riguarda i siti archeologici di Monte Catalfano e Monte Porcara, mentre per quanto riguarda Pizzo Cannita,
dove furono trovati nel 1695 e nel 1725 due sarcofaghi antropoidi raffiguranti figure femminili di sacerdotesse, vi si suppone, per il ritrovamento di monete con la leggenda Cronia, l’esistenza dell’omonima città perduta e misteriosa di etnia greca. Montana tuttavia in questo quadro così puntuale e dettagliato non può non notare un’assenza clamorosa, l’assenza del fiume Eleuterio, che per il nostro autore porta il nome di un dio, di Dioniso, nome che verrebbe confermato dal fatto, che il fiume era pure chiamato fiume della Baccaria perché per un breve tratto bagnava per l’appunto le terre di Bacco, terre dedicate al dio, in quanto coltivate a vigneti ove pure, secondo lo Scanello, era stato edificato da coloni greci un tempio in suo onore.
Un’altra prova incontrovertibile che il nome Eleuterio è quello di Dioniso si può desumere dal fatto che il fiume nasce alla fonte, alle pendici di Rocca Busambra, ma qui è chiamato con un nome diverso, quello di Scansano per poi prendere i nomi delle terre che via via innaffia, quali Mirti e Risalaimi ed infine di Baccaria (oggi Bagheria), denominate tali, perché di esse era il
signore, il nome di Bacco essendogli stato dato in epoca appena successiva alla colonizzazione greca, quella appunto del
dominio romano.

Forte di tale convinzione, Montana individua subito nel predominio del cristianesimo quella rimozione della memoria
storica che doveva non solo cancellare Dioniso dalla sua appartenenza al nostro territorio e alla nostra storia, ma addirittura contribuire a trasformare quest’ultimo da fiorenti centri commerciali fenici e greci, in terre così abbandonate, da dar luogo, come viene documentato in epoca medievale, ad una selvaggia vegetazione, a foreste buone solo per prelevarvi legna da ardere.

Col passare dei secoli in questo nostro territorio così in abbandono la trascorsa epoca pagana restava seppellita nell’oblio
e sotto l’inesorabile coltre di una pesante rimozione storica. Solo nel 1653 queste “terre solinghe ed oscure”, seppure non più così abbandonate e disabitate, per la presenza ormai in esse di alcune masserizie, vengono attenzionate da un aristocratico palermitano, don Giuseppe Branciforti, Conte di Raccuja, che decide in parte di acquistarle per costruirvi la sua definitiva e solitaria dimora.

Il conte coltiva infatti già a partire da quegli anni, pur non conoscendo ancora quel che la sorte amaramente gli avrebbe
riservato, un suo progetto culturale, che gli veniva sollecitato da un forte influsso, da una forte suggestione della cultura ermetico-esoterica del suo tempo, di cui mostra di essere profondamente imbevuto. Questo progetto infatti venne realizzato con la costruzione della sua dimora filosofale, il cui nucleo doveva essere costituito da un (lab)oratorio alchemico, ove il conte si sarebbe ritirato per pregare ed affinare la sua propria anima, in preda a depressione e malinconia.

E qui che Montana scrive le sue pagine più convincenti su don Giuseppe Branciforti che viene identificato con Saturno.
Come alter ego di Saturno- Montana infatti scrive- che il nostro Branciforti viene per così dire detronizzato dall’omonimo cugino Conte di Mazzarino nella successione al titolo di Principe di Butera, che avrebbe potuto investirlo del principato più
importante dell’Isola, cosa che avrebbe potuto pure comportare la conquista della corona del Regno di Sicilia, come Saturno
ancora il nostro Branciforti sopravvivendo alla morte del figlio Baldassarre, avvenuta all’età di 24 anni, da padre assiste all’opera divoratrice del tempo, che tutto consuma, come infine un personaggio saturnino il Branciforte cupo e detronizzato viene ad abitare all’estremità est delle campagne di Palermo che pur non essendo del tutto disabitate appaiono al conte solinghe e oscure e tali da nascondere un cupo mistero, che un abbandono millenario contribuiva ad alimentare. Personaggio dunque saturnino con Villa Branciforti Butera il nostro don Giuseppe edifica quel che può essere considerato un manifesto eclatante della malinconia, che di certo, anche se tuttora non conosciuta, costituisce una pagina altissima della cultura ermetico-esoterica europea propria di quel tempo, che avrebbe dovuto certo figurare oggi nel bel libro di R.Klinbansky. E. Panofsky. F. Saxl Saturno e la melanconia, che la sintetizza egregiamente.

Ma dove Montana fa più sfoggio della sua vasta cultura è nell’inserire la villa del nostro conte, dalla quale svettano le sue
celebri lapidi con iscritti i versi della Galatea del Cervantes e dell’emistichio del Tasso, “O CORTE ADDIO!” nel contesto
culturale di quel tempo, di cui, tratti da diversi libri dell’epoca, vengono citati passi e brani della lode alla “aldea”, della vita
rustica preferita a quella di corte in libri, oltre alla Galatea del Cervantes, quali Disprezzo della corte ed elogio della
campagna di Antonio de Guevara (1539?), nella terza satira dell’Ariosto, che qui val la pena riportare : << So che dal parer dei più mi tolgo/ che ‘l stare in corte stimano grandezza, / ch’io pel contrario a servitù rivolgo/ Stiaci volentier dunque chi l’apprezza; / fuor n’uscirò ben io, s’un dì il figlio di Maia vorrà usarmi gentilezza/ Non si adatta una sella a un basto solo/ ad ogni dosso; ad un non par che l’abbia, / all’altro stringe e preme e gli dà duolo/ Mal può durar il rosignol in gabbia, / più vi stia il cardellin ed il flanello; la rondine in un dì vi mor di rabbia, / chi brama onor di spone e di cappello, / serva re, duca, cardinale e papa,/ io no, che poco curo questo e quello. / in casa mia mi sa meglio una rapa/ ch’io cuoca, e cotta s’un stecco m’inforco/ e mondo, e spargo poi di aceto e sapa/ che all’altrui mensa tordo, starna o porco/ selvaggio; e così sotto una vil coltre/ come di seta o d’oro ben mi corco.>>

Libri dunque dove la topica anticortigiana è presente come nei Ricordi del Guicciardini e nel dialogo sul tema della corte del
Tasso completato nel 1587 con il titolo Il Malpiglio, overo de la corte. Ma sul tema, che pure fa parte della lode all’aldea, della
vita rustica dei pastori in opposizione a quella dei cortigiani, Montana cita oltre all’Arcadia (1504) del Sannazzaro, che don
Giuseppe Branciforti non poteva non aver letto, anche opere molto meno conosciute almeno da noi quali Los siete libros de
la Diana (1559) di Jorge de Montemayor, Diana enamorada (1564) di Gil Polo, La Galatea (1585) del Cervantes, da cui il
Branciforti trae dei versi che incide su una lapide della sua villa, L’Arcadia del Sidney(1593).

L’Astrea di Onofrio D’Urfé (1610), tutte opere che espressero un bisogno di evasione dalla vita di corte verso la campagna
nonché la fuga dalle preoccupazioni ivi presenti per un nostalgico ritorno invece alla spensieratezza, alla felicità del paradiso
perduto, proprio dell’età dell’oro, retta dal governo di Saturno.

Michele Manna



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