Fame e miseria al tempo del re

Nel 1825, dopo 60 anni di regno moriva Ferdinando I°, ma con suo figlio Francesco I° le cose andarono di male in peggio.
La classe dirigente come per una sorte di magia era rimasta sempre l’aristocrazia terriera dei baroni, i quali, protetti da leggi fatte per loro mantenevano gli atavici privilegi.

A Francesco I° subentrò Ferdinando II° re delle due Sicilie e qui ci fu il botto! Questo re, napoletano fino al midollo, manciuni, fimminaru e senza russuri in faccia, avviò un processo di riforma agricola, ma quando le cose non gli quadrarono per il verso suo ci fu un voltafaccia nei confronti della Sicilia ed i suoi secolari problemi. Si cercò di ridurre i dazi sugli alimentari ma la miseria dei contadini era già diventata cronica e spiravano venti di rivolta. Bande di briganti assaltavano tutto ciò che gli capitava tra le mani, mentre il contadino continuava a lottare con la fame e la miseria per una identità che non aveva ancora acquisito.

La casa frumentaria di Ficarazzi e l’opificio della congregazione non erano più in grado da soli di reggere le tristi magagne dei gabelloti e i capricci dei baroni mantenuti da un parlamento impotente e incapace. E’ il periodo questo del contrabbando di cibo e delle minacce usate per estorcere denaro, cosicchè i baroni e i gabelloti di Ficarazzi, Bagheria, Villabate e Trabia furono costretti ad armare dei curatoli come guardiani dei loro terreni.

L’industria era quasi inesistente. Un bracciante di Ficarazzi lavorava tutto il giorno per avere “quattro crozze” di carbone e solo l’Arciprete Salvatore Lojacono e il tesoriere comunale Ogliastro Enrico Maria sapevano leggere e scrivere, l’analfabetismo regnava sovrano. Il consiglio civico di Ficarazzi, presieduto dal sindaco Benedetto Segreto con apposita seduta comunale sperimentava nel Chiano di Mare e nel Cozzo delle Menzogne le piantagioni di gelsi per la produzione del baco da seta, si tentava così di fare rinascere un paese che viveva di riflesso sulle luci e ombre di Palermo. Infatti da Palermo giungevano brutte notizie, complotti, congiure, tragediature. Il 1° settembre 1831, Domenico di Marco, Vincenzo Bellotta, Girolamo Cardella, Paolo Buccheri e tanti altri artigiani, gentiluomini, piccoli borghesi palermitani, al grido di “Viva Palermo
e Santa Rosalia”, decidono di provocare una rivolta del popolo distrutto dalle angherie, tasse, balzelli, dalla fame, dalla
miseria contro re Ferdinando II°, che quando era a Palermo passava il suo tempo alla Palazzina Cinese dentro la Real Favorita, da lui voluta come casena di caccia ma sfruttata come casino per le sue amanti.

Anche a Ficarazzi, Bagheria e dintorni il popolo era alla fame e alle notizie della rivolta che divampava tra l’Albergheria e Porta Termini si ridestò dal torpore e dall’apatia in cui sonnecchiava all’ombra del Castello dei Campo e di Palazzo Butera.
Diversi giovani, dai diversi ceti sociali, tra cui Giovanni Cataldo mastro ferraio, Giuseppe Livigni argentiere, Giovanni Vitale fornaio, Domenico Trentacoste fondatore di campane, Martorana Domenico potatore, Lo Cascio Vincenzo “cartiddaru”,
Lanza Luigi “siggiaru”, si riunirono nel magazzino rurale alle porte del paese, nei pressidel fiume Eleuterio di proprietà dello zù Nunzio Tempra e si organizzarono per aderire alla rivolta di Palermo.

Al segnale dello scampanio delle campane della Chiesa di Sant’Atanasio scesero tutti per le strade, assaltarono il Castello e poi andarono a Palermo. Ma come già successe a Palermo anche Ficarazzi ebbe il suo Giuda: Pietro Miccione detto “u Cantaranu”. Il Miccione era un saccunaru e scassapagghiara, lagnusu, sbirro e spia del locale presidio borbonico, comandato dal tenente Francesco Mendez, assiduo frequentatore, ubriacone della taverna dello zù Benedetto, tra tocchi, risate, sciarre ed insulti, tra panze lente e chiaccheroni ebbe sentore della congiura e andò a cascittiari tutto alla regia caserma.

Non ci fu nemmeno il tempo di sparare un colpo di carabina o di sfoderare le sciabole che il prode Merlo Antonio Luigi aveva arricucchiutu insieme ai fucili, lupare e poche cartucce. Sotto una pioggia battente, con un cielo nivuru, i gendarmi del
tenente Mendez perlustrarono le contrade del “Pizzotto”, di “Siciliana”, nei bassi sotto il Castello, al “Chiano di Mare da Cordova”, alle case di Villa Merlo, ai “Quattrociocchi” e ai “Pupi nivuri” di Compagnone. Mentre a Palermo la rivolta assumeva toni tragici, con morti, feriti, feroci scontri a fuoco e arresti in massa a Ficarazzi la rivolta nemmeno era cominciata.

L’economo Vespa Giovanni tentò di ammucciare nella sua cascina della “Vorica” i fratelli Faraone, con lo stagnataro Patellaro Ferdinando. Padre Salvatore Lojacono, parroco della chiesa di Sant’Atanasio fece intanare sotto la cripta della statua di San Giuseppe a Giarnecchia Modesto e a Matteo Clemente sotto la statua di San Benedetto. Atanasio Mezzatesta e Gaspare Inzerillo si nascosero tra le tombe del cimitero dietro il Castello. Il sindaco Benedetto Segreto fu costretto a restare nella piccola stanza del municipio, nella piazza che s’affacciava sullo stradone insieme al vicario Angelo Rotolo. “Appena ti muovi ti arresto” lo minacciò con durezza il tenente Mendez. In poco tempo tutti furono stanati, arrestati, messi in catene, pigghiati a legnate e scinnuti alla Vicaria di Palermo, alla marina.

In paese, intanto, era giunta la voce che davanti la commissione militare della valle di Palermo, presieduta dal maggiore Emanuele De Bonecord, con i giudici Tommaso Pepe, Giuseppe Antonio Lepore, Raffaele Caselli, Ferdinando Antonelli, sotto l’uomo di legge che è il procuratore generale del re, Salvatore Ognibene, con l’accusatore nella persona del terribile capitano Domenico Petorio, era iniziato il processo contro Domenico Di Marco e altri 30 rivoltosiu tra cui Barrile, Scarpinato, Rizzo e Quattrocchi.

Fu un processo farsa, una teatrata, veloce e di parte, senza nessuna difesa, solo tanta autorità e rancore per quei “quattro scassapagghiari” come li definì l’accusa e il procuratore. In undici furono condannati a morte mediante fucilazione, che fu
eseguita il 26 ottobre del 1831 in contrada “4 Venti”, di fronte il carcere dell’Ucciardone. Gli altri furono condannati all’ergastolo e in pochi si “salvarono” con condanne dai 10 ai 20 anni di carcere. Alla notizia delle condanne arrivate da Palermo tutta Ficarazzi (piccola, contava circa 1500 abitanti) tremò per i suoi figli e pregò attorno a Padre Lojacono davanti al Santissimo Crocifisso delle Grazie.

Grazie alla buona influenza di alcuni notabili, tra cui i Giardina, i Ventimiglia, i Lanza Trabia i rivoltosi ficarazzesi furono condannati a pene lievi e nel giro di pochi anni furono liberati. Pochi mesi dopo questi fatti, nell’agosto del 1832, alcuni
picciriddi, scalzi, quasi nudi, che giocavano tra le canne e le balate della foce del fiume Eleuterio trovarono impiccato ad un albero di gelsi il Giuda di Ficarazzi, Pietro Miccione “u cantaranu”. Vendetta era stata fatta, lo spione era stato ammazzato, ma non era finita. Il popolo di Ficarazzi non si fermava davanti le minacce del governo borbonico, il 25 luglio 1837 i contadini e gli artigiani decisi a riscattarsi ed essere liberi assaltarono il palazzo del principe Giardina…ma questa è un’altra storia…

NB: Le notizie, i nomi, i fatti raccontati sono reali e sono stati tratti da fonti “Archivio di Stato di Palermo- Documenti Regno
delle due Sicilie” e dal volume “Ficarazzi e il suo territorio” di Filippo Salvatori Oliveti.



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