Il tempo sistema molte cose. È un amico silenzioso che cura le ferite, affievolisce i ricordi e attenua dolori e nostalgie. E di tempo ne è passato da quando il virus ha raggiunto il nostro paese. È trascorso più di un anno dal discorso con cui Giuseppe Conte, allora premier, dichiarava il lockdown per tutto il territorio nazionale. E, da allora, disposizioni di sicurezza, interpretazioni, dpcm sono instancabilmente mutati nel tempo.
È addirittura cambiato il Governo. La confusione intrinseca nell’emergenza si è di certo ripercossa anche sull’attività politica.
Ma adesso, a distanza di oltre un anno, se non è ancora possibile fare una stima degli esiti economici e sanitari, si può invece
riflettere su quanto la pandemia possa aver influito sul nostro modo di vivere la comunità politica. E non si tratta soltanto di restrizioni e coprifuoco, ma del vero e proprio approccio a quel che ci accade intorno. Sembra trascorsa una vita dall’epoca dei musicisti che suonavano sui tetti, dei cori intonati all’unisono, degli striscioni carichi di speranza appesi ai balconi e dei “ce la faremo” urlati a squarciagola.
Ma oggi, pur non registrandosi ancora nessun calo decisivo nei dati del contagio, si respira un’aria differente. Quello odierno è un clima di emergenza ma di certo meno suggestivo e meno affiatato. Siamo tutti un po’ più coinvolti, come abituati a una situazione terribile e anormale che, però, non stupisce più nessuno. Certo, il confronto tra le fasi storiche regge a malapena.
Quello della commovente solidarietà tra i tetti e i balconi delle case, era un periodo in cui tutto era rimasto bloccato, sospeso in una bolla di ansia domestica che nessuno sapeva né quando né come sarebbe esplosa.
Adesso, invece, l’incertezza morale e l’allerta sanitaria sono mitigate da un progressivo ritorno alla normalità. È chiaro il
motivo per cui i sentimentalismi si sono attenuati: in un contesto sociale più equilibrato, dove – più o meno – si ritorna a lavoro, a scuola e a qualche vecchia abitudine, non si può certo stare lì, tutto il giorno, a piagnucolare di quanto sia ingiusta una pandemia e a farci coraggio a vicenda.
Sarebbe melodrammatico, ridicolo e per di più inutile. È normale, dunque, che quella fase sia stata superata. Per di più,
l’attuale ritorno all’antica e umana indifferenza ha un che di positivo, perché dimostra che il virus non ha piegato l’istinto di
guardare avanti con speranza. Tuttavia, la pandemia non ha mostrato soltanto quanto sia vivo il nostro spirito di comunità nei momenti di maggiore disperazione. Molto più gravemente, ha recato una quantità infinita di danni, sia materiali sia ideali. Gente che ha perso il lavoro, che ha dovuto chiudere baracca, che si è impoverita. Gente che è morta o che ha visto
morire i propri cari. È emerso più chiaramente il dramma delle solitudini, dell’incomunicabilità, della violenza domestica.
Sono state svelate le criticità di anni di privatizzazioni nel sistema sanitario.
E – proprio come i sentimenti di coesione che hanno contraddistinto i primi mesi – anche tutto questo, a poco a poco,
sembra tendere all’oblio ed essere destinato a tramutarsi nel solito ricordo che il nostro “amico tempo” cancellerà una volta usciti dalla crisi. Vale dunque la pena di chiedersi: se è impossibile e privo di senso restare fossilizzati nell’emotività di aprile e maggio dell’anno scorso, è però opportuno impedire che i problemi di ordine politico e sociale scoperchiati dalla pandemia finiscano nel dimenticatoio come i nostri sentimenti?
Se tendiamo l’orecchio è ancora possibile intuire l’eco di vecchie parole: “restiamo distanti oggi per abbracciarci più forte
domani.” Una frase non solo intrisa di speranza, ma che suggerisce anche la possibilità di approfittare dell’anomalia per
trarne beneficio in termini di progresso. Un concetto a cui gli antichi erano molto legati: la crisi come occasione di rinnovamento e rinascita. Nell’epoca del digitale, invece, anche i sentimenti di rinascita sono a volte passeggeri
come le mode. E questo è stato intuito anche dal potere politico – non dimentichiamo che la prima vera sensibilizzazione al rispetto delle norme di sicurezza ha avuto origine nei media e nelle istituzioni con lo slogan “io resto a casa”, poi formalizzatosi in un hashtag e, dunque, in un elemento anche e soprattutto estetico e di tendenza. Ma se è inutile, oltreché insensato, pretendere che tutti continuiamo a tirarci su di morale a vicenda come prima, è senz’altro indispensabile che i temi di rilievo politico pertinenti alla pandemia non vengano cancellati dalle nostre menti.
Per quanto le difficoltà di questo periodo inducano, per ovvie ragioni, a un disinteresse verso la politica, non bisogna
cedere all’indolenza. Perché tutto fa politica: tutto quello che facciamo e tutto quello che evitiamo di fare. Anche il nostro disinteresse per l’azione politica, genera la politica del futuro. E oggi, purtroppo, dall’insediamento del nuovo Governo,
l’operato politico, anche se molto simile a quello dell’esecutivo uscente, sembra restare indiscusso dalle stesse parti politiche che prima facevano il diavolo a quattro.
Si è fatto più intermittente il discorso pubblico sui sostegni economici a famiglie e imprese. Si parla poco di drastiche
correzioni alle politiche sanitarie degli ultimi decenni. Si parla poco anche della gestione di quel famoso Recovery fund,
pomo della discordia nella precedente esperienza di Governo. L’indolenza indotta dalla pandemia e dalla voglia di tornare alle nostre vecchie abitudini è più che giustificata, ma la corsa alle difese contro il virus non deve generare una vulnerabilità sul piano del raziocinio politico. Non scadiamo di certo nel complottismo (lungi dall’aderire a movimenti no vax, no mask e simili aberrazioni dell’intelletto), ma c’è una cosa che la storia insegna: il potere economico ha la capacità di adeguarsi alle circostanze proprio come un camaleonte fa con i colori. E di sicuro il virus non sarà – come dicono alcuni – un’apocalisse pilotata politicamente, ma non stupirebbe se vari interessi politici e economici avessero già cominciato a costruirsi, a posteriori, intorno all’emergenza sanitaria.
Interessi che vorranno essere tutelati e che, a breve, potrebbero far capolino anche nelle imminenti politiche economiche.
È bene non farsi trovare impreparati e tenere alte le difese immunitarie. D’altronde, quale preda è più politicamente succulenta di una comunità abbandonata all’apatia?
Gioacchino D’Amico
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