Obiettivo Biodiversità, progetto per la tutela degli ecosistemi del pianeta

Intervista a Marcella Giornetti, giovane biologa ideatrice del progetto – Prima parte

Affascinata dal mondo della natura, sin dalla tenera età, Marcella Giornetti, giovane biologa di Ficarazzi, ha recentemente pubblicato un blog: www.obiettivobiodiversita.com, con il quale intende sensibilizzare l’opinione pubblica sulla difesa dell’ambiente e sulla tutela di flora e fauna dell’intero pianeta. Abbiamo chiesto all’intraprendente biologa, un’intervista che siamo lieti di pubblicare, in questo numero nella sua prima parte. Nel prossimo numero, verrà pubblicata la seconda parte.

Ciao Marcella, innanzitutto, parlaci un po di te, di cosa ti occupi?

Sono una Biologa, laureata in Biodiversità e Ambiente. Mi piacerebbe poter dire che mi occupo sostanzialmente di fauna selvatica, ma ahimè qualsiasi animale, in un modo o nell’altro, deve aver a che fare con un ambiente ed un ecosistema alterato da molteplici minacce di cui i responsabili siamo noi esseri umani. Quindi mi occupo anche di sensibilizzare i cittadini sull’impatto che hanno le nostre abitudini di consumo e il nostro stile di vita sulla salute degli ecosistemi.

Come è nata la tua passione per la natura?

Credo di essere nata con questo forte legame rispetto agli animali, certamente devo ringraziare i miei genitori che fin da piccola mi hanno permesso di nutrire questo interesse attraverso giocattoli di interesse scientifico. Ricordo molto bene un giocattolo, ricevuto per natale, che mi permetteva di realizzare fossili di dinosauri facendo calchi in gesso. Da adulta, questa passione si è trasformata in un percorso di Studi e, infine, in una vera e propria professione.

Hai pubblicato di recente un blog dedicato alla sensibilizzazione verso la tutela ambientale a livello mondiale. Come è nato questo progetto così nobile, ma anche ambizioso allo stesso tempo?

Certamente la pandemia del 2020 ha mosso in me qualcosa: fino a quel momento, mi ero sempre sentita oppressa dai giudizi della società riguardo quello che avevo scelto di diventare. La mia professione è vista con superficialità, perché per l’opinione pubblica la tutela dell’ambiente e della biodiversità “non fa reddito”. Con la pandemia è avvenuto il mio riscatto: questo terribile evento che ci ha coinvolti direttamente non è altro che un fenomeno biologico parecchio noto, sul quale oggi si sta cercando di far luce. Si tratta di un meccanismo evolutivo che vede coinvolti parassita e ospite e, a causa anche della scorretta interazione con gli animali selvatici – ancora non è ben noto con quali – siamo noi esseri umani ad esser diventati l’ospite. Il meccanismo è noto come “Spillover”, e non è altro che la diffusione di zoonosi potenzialmente pericolose tra vari organismi che occupano la terra. Noi riteniamo spesso di essere “oltre“ questi fenomeni, eppure il Covid-19 ci ha brutalmente smentiti. Esattamente come gli altri esseri viventi, anche noi siamo coinvolti da fenomeni biologici. La visione di un virus creato in laboratorio non è nient’altro che un tentativo razionale dei non addetti ai lavori di spiegare quanto accaduto, giusto per giustificare il tutto, ancora una volta, come una azione di cui l’uomo è protagonista. Non è stato così. Da quel momento però, mi è stato chiaro quanto fosse necessario sviluppare nella società una cultura in grado di comprendere l’ecosistema Terra e le sue dinamiche, non solo per poterne analizzare i meccanismi ma soprattutto per poter prenderci cura del nostro pianeta in modo corretto.

Dallo scioglimento dei ghiacciai e del conseguente innalzamento dei mari, all’incendio di foreste spesso di natura dolosa e dell’avanzamento di aree desertiche che ne deriva, fino al costante problema dell’effetto serra, l’azione dell’uomo sembra proprio non dare pace al pianeta. Siamo ancora in tempo per salvarlo?

Questa domanda ha una duplice risposta, a seconda del punto di vista che intendiamo analizzare. La Terra, in quanto ecosistema dotato di componenti animali e vegetali che hanno più funzioni, possiede una proprietà resiliente che le consente di ripristinare e recuperare, nel corso di secoli, o addirittura millenni, quanto l’ha danneggiata. È la paleontologia e la storia dell’evoluzione della Terra, che ci insegnano questa sua caratteristica. Da un punto di vista di specie umana, invece, saremo noi a farne le spese, poiché la nostra vita è limitata, e così anche quella delle generazioni future. Acqua, cibo e servizi ecosistemici sono ciò che ci serve per sopravvivere. Se prosciughiamo le risorse e alteriamo le dinamiche terrestri non avremo il tempo di aspettare millenni, prima che la Terra possa ripristinare il suo equilibrio.

Passiamo al problema delle specie alloctone introdotte in zone estranee al loro habitat naturale e dell’alterazione dell’ecosistema ospitante. Gli esempi non mancano: lo scoiattolo grigio originario del Nord America, in grado di mettere in pericolo la sopravvivenza dello scoiattolo rosso europeo, oppure il danno arrecato all’agricoltura del Lazio e nella Pianura Padana, dalle nutrie sudamericane. L’eradicazione delle specie invasive è l’unica soluzione, per quanto drastica o ci sono per fortuna altri metodi?

No per fortuna, è importante specificare che a seconda di quanto sia invasiva la specie, ci sono dei protocolli da applicare. È importante premettere, inoltre, che non tutte le specie alloctone o “aliene” siano invasive. Ci sono, infatti, delle specie provenienti da ambienti diversi dal quello in cui vengono introdotte che non arrecano danno in modo significativo, fermo restando che è comunque sbagliato introdurre volontariamente o accidentalmente animali. Altre specie, invece, come quelle da te citate, purtroppo sono caratterizzate da un’invasività determinata dal fatto che competono, per la ricerca di cibo e spazio, con le specie dell’ecosistema ospitante. In questo caso ci sono diverse opzioni per poter evitare questo problema. Sicuramente ogni specie invasiva implica una valutazione ed una soluzione specifica. Nel caso delle nutrie in nord Italia, si è cercato di contenere il problema attraverso la costruzione di reti metalliche che possono evitare il passaggio di questi animali all’interno dei sistemi di irrigazione dei campi che caratterizzano la Pianura Padana. Questo sistema però si è rivelato inefficace e, nonostante il piano di controllo redatto dall’ISPRA, ad oggi il problema non ha ancora trovato soluzione. Una considerazione va fatta per il Parrocchetto dal collare, pappagallo il cui habitat originario è in Asia e in Africa, e presente anche in Italia, perché liberato dai privati che lo possedevano come pet, una popolazione si è stabilita anche all’Orto Botanico di Palermo. La popolazione Siciliana è talmente numerosa, che è impossibile effettuare qualsiasi tipo di intervento. La soluzione da adottare dipende non solo dalla specie, ma anche dal momento nel quale si decide di applicare l’intervento, nonché dall’area che essa occupa (se di interesse naturalistico) e da eventuali danni economico – ecologici che essa compie; che comunque, come ultima fase, dopo attenti censimenti numerici, prevede l’eradicazione della specie invasiva, cioè l’insieme di azioni mirate al suo contenimento. La soluzione dell’eradicazione tuttavia è di difficile applicazione, a causa dell’ostacolo posto dall’opinione pubblica e dalle associazioni animaliste, che ostentano un comportamento antispecista, perseguendo una logica secondo la quale si debbano tutelare indistintamente tutta la fauna e la flora presente, senza analizzare conseguenze ecosistemiche e caratteristiche ecologiche nelle quali ciascuna specie si ritrova, argomenti che per professionisti del settore sono invece di primaria importanza. Interventi necessari come sterilizzazione o eradicazione vengono visti come brutali ed eccessivi, nonostante, invece, in altri paesi europei, vengano portati a termine perché le associazioni animaliste presenti hanno comunque fatto un passo indietro rispetto a quelle che sono le conoscenze scientifiche sull’ecologia del paesaggio.

A parte l’intervento dell’uomo in natura, per sfruttarne le risorse, tuttavia ci sono altre azioni dannose involontarie, come ad esempio cibare animali selvatici. Perché è dannoso, in pratica?

Allora intanto analizziamo il fenomeno dal punto di vista sociale: ciò avviene perché si stabilisce una forma di empatia nei confronti dell’animale selvatico, che spesso si sviluppa e si struttura solo con alcune specie “carismatiche”, come ad esempio le volpi o gli uccelli. Di contro questo fenomeno non avviene con altre specie, almeno io non ho visto mai nessuno empatizzare con un serpente. Dal punto di vista ecologico, invece, è qualcosa che non va fatto assolutamente per nessuna specie selvatica, salvo suggerimento di esperti,, perché l’ecosistema vive in un perfetto equilibrio che non ha bisogno dell’intervento dell’essere umano, in tal senso. Fatta questa doverosa premessa, si può affermare che il motivo principale per il quale è sbagliato nutrire animali selvatici è di natura sanitaria. L’uccellino potrebbe essere portatore di patologie, come è già successo per l’ influenza aviaria, un’ipotesi da non escludere, proprio per ciò che è stato detto prima a proposito dello Spillover. Non è da escludere neanche il caso opposto, e cioè che l’animale venga contagiato da una patologia che affligge l’essere umano. Un altro motivo, per il quale non si deve dare del cibo agli animali selvatici, è per evitare che diventano dipendenti nei confronti dell’essere umano, perdendo così il loro ruolo naturale nell’ecosistema. Ci sono tantissimi video dove si vedono delle volpi che interagiscono con l’essere umano perché abituate ad essere nutrite, si tratta di animali che hanno perso la loro “funzione ecologica”, perché perdono il ruolo naturale di organismi predatori, ma anche di “spazzini” (poiché si nutrono di carcasse lasciate da altri predatori); venendo meno questa funzione si altera l’equilibrio dell’ecosistema, e lo si sottopone anche al rischio di venire sparato da cacciatori poiché, abituato alla presenza umana, alla vista di un uomo tenderà infatti ad avvicinarsi anziché scappare. Non è del tutto errato pensare che possa, per convenienza, avvicinarsi nei centri urbani alla ricerca di cibo. Tra l’altro, spesso non si conosce neanche la dieta dell’animale e vengono inconsciamente somministrati alimenti inappropriati. È opportuno imparare a empatizzare verso gli animali selvatici mantenendo comunque rispetto per quelli che sono i meccanismi della natura ed i comportamenti naturali degli organismi viventi, sia che si tratti di una volpe sia che si tratti di un serpente. Questo è possibile soltanto attraverso la conoscenza ed allontanando credenze popolari spesso frutto di ignoranza. Si assiste spesso anche a interventi dove si cerca di interrompere fenomeni di predazione, senza valutare attentamente le dinamiche. Questo comportamento talvolta si manifesta a priori di una effettiva valutazione ed è assolutamente deleterio: bisogna riflettere sull’assunto che anche l’animale predatore ha lo stesso diritto di nutrirsi esattamente come tutti gli altri animali. “La migliore interazione” che possa esistere con un animale selvatico si limita al rispetto della sua ecologia e alla consapevolezza che esistono professionisti che hanno dedicato tempo e studio per conoscere al meglio le dinamiche della natura. Colgo l’occasione per dare un consiglio a chi trova animali feriti e decida di prestare soccorso o interagire: non prendere mai nessun iniziativa, bensì è opportuno rivolgersi ad un esperto che saprà sicuramente cosa fare prima di trasportare l’animale al centro di recupero faunistico più vicino, che nella nostra provincia si trova presso Ficuzza (PA) dove attualmente presto volontariamente la mia collaborazione.

Nicola Scardina


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