La mano di Giovanni… a Palermo ci stannu “i miricani”, …ma di chi avete paura?

Dai primi di giugno eravamo sfollati in contrada Palma, nella casuzza di nonno Pitrinu, tra giardini di nespole e limoni che di notte sotto il chiaro di luna parevano lumini. La paura era tanta per via delle bombe che la notte non si pigliava sonno e durante la giornata eravamo tutti stralunati.

Ma come si può fari? Scappavamo dal paese per evitare i bombardamenti e ci andavamo a buttare proprio sotto il fuoco, proprio vicino al ponte della Madunnuzza, sulla Statale, dove era piazzata la postazione antiaerea dei tedeschi e gli americani scaricavano bombe ma non la colpivano mai.

La notizia che gli alleati erano sbarcati dalle parti di Gela era arrivata in paese tramite u zù Tanu Pagano, carrettiere, baarìoto, siccu, chi baffi, stava acchianannu per i Lannari e ci raccontò quello che aveva visto la notte tra il 9 e il 10 di giugno nella zona di mare di Licata.

Navi che cummigghiavanu il mare, cannonate che sembravano i botti del fistinu di Palermo e poi carri armati, file di camion e jeep militari che non finivano mai, con ai bordi delle strade tanti soldati che marciavano a piedi. Era l’estate del 43, tirava uno scirocco stufficusu, l’aria era quagghiata, nello stradone deserto solo qualche carretto, poi vento, polvere e silenzio. Il balcone del Municipio aveva le persiane sbarrachiate e arrivava il gracchiare di una radio che si sentiva fino all’angolo della cantoniera:-“… qui Radio Londra…il Maresciallo Badoglio forma un nuovo governo e proclama il proseguimento della guerra al fianco dell’alleata Germania…”.

Nonno Pitrinu, che aveva fatto la guerra del 15/18 e s’intendeva a suo modo di guerra sbottò:-“…mizzica, ecco picchì i ‘mericani nni stannu bombardando…sbarcaru in Sicilia…”. Dentro il Municipio, nella sua stanza il sindaco non sapeva che cabbasisi fare e guardava senza parlare il Segretario Comunale che era tuttu cacatu picchì avendo tutta la famiglia a Palermo aveva ancora paura per i bombardamenti degli americani, ma a Palermo da quattro giorni erano entrati gli stessi americani al comando del generale Patton e la confusione era totale perché mancavano le notizie.

Nella stanza entrò Padre Sucato, con la tunica nera che diventata bianca per il quacinazzu caduto dai tetti causato dai bombardamenti. Era tutto sudato, pallido, scantatu, mancu poteva parlare. Il sindaco lo invitò a sedersi:-“…padre Sucato assittativi,
calmativi, picchì siti accussì agitatu, chi viristivu u diavulu?”. Padre Sucato s’assittò e tirò fuori un fazzoletto che pareva una mappina e s’asciugò la fronte e poi si vintuliava per fare fresco.

“-…ma diavulu e Signuri, successi una cosa tinta, ma non avte udito il botto che scassò l’aria poco fa?”. “-…parrinu, i tedeschi
scapparu, da diversi giorni non ci sono stati bombardamenti, a Palermo ci stannu i ‘mericani, ma di chi avete paura?”. “-…è
passato dalla chiesa Mastru Agostino u cumunista e mi ha detto che vicino allo stradone di via Merlo è scoppiata una bomba
e qualcuno ci ha lasciato le pinne, qui in paese non c’è più nessuno, il Podestà spiriu, i carabinieri sono sbandati, al Castello ci stannu gli americani con quel capitano longu longu ca va assicutannu fimmini, il dottore Maggio non si trova, a chi dobbiamo mandare per sapere che cosa è successo…?”. La campana del vespero fece scappare Padre Sucato, la Messa lo chiamava, gli altri si guardarono in faccia e scesero i scaluna a quattro a quattro e ci fu silenzio, solo la radio continuava a ripetere…”-…qui Radio Londra…il popolo italiano…”.

Quella mattina malgrado la guerra il paese si era arruspigghiatu come tante altre mattinate: Filippo curviava dalle parti della Marina e tampasiava cu Carruzzu tra sipale e trazzere; u zù Pippinu u carbunaru, come al solito, anche se cadevano le bombe scendeva a Palermo a rifornirsi di carbone e gasolio; molta gente era sfollata nelle campagne, i bombardamenti dei giorni passati erano stati spaventosi, non passava nottata che non piovevano bombe su Palermo e dato che Ficarazzi era il primo paese alle porte della città, i bombardieri b52, le famose fortezze volanti, provenienti da Bagheria sganciavano bombe vicino al ponte, al Chiano di Mare, dalle parti di Siciliana e qualche bomba era caduta nelle campagne attorno a Villa Merlo, scambiata forse per il Castello, dove era dislocato il comando tedesco prima dell’arrivo degli americani.

Quella mattina, Giovanni, Saruzzu, u Cipolla, Atanasio, Natalino e Santino, tutti picciriddi che stavano sempre in mezzo alla strada,
invece di andare a farsi i bagni alla Crocicchia presero la strada della Cannita. Scalzi, pantaloncini alla zuava stracciati, canottiere
bucate, capelli rasati a zero per non farsi mangiare dai pidocchi, improfumati di DDT, occhi grandi e scuri, profondi e pieni di
fame, pieni della loro infinita giovinezza, erano stanchi di mangiare carrubbe e fave come l’asino dello zù Turiddu.

A Ligno Verde c’erano fichi e uva che lim aspettavano per riempirsi la pancia e la pettorina. Arrivarono di buon mattino, non c’era anima viva, tuto sembrava abbandonato, c’era la guerra e davanti a loro c’era maestosa nelle sue antiche e solide mura Villa Merlo. Fino a pochi giorni prima c’erano i Signori Merlo, i nobili, c’era la luce, c’era la musica, già la musica, da dietro il muro Giovanni e la sua comarca sentivano una canzone che faceva:- “…ba ba baciami piccina…”. C’erano le signorine, belle alte, sciacquate, con le gonne fiorate che svolazzavano, qualcuna fumava, ridevano, e loro, i picciriddi, taliavanu a bocca aperta, tanto aperta che si sentiva lo stomaco vuoto che cantava.

Appena alzarono la testa sopra il muro sovrastato dagli alti pini il curatolo li vide e minaccioso cominciò a gridare:-“…attìa… scinniti ri supra u muru…viriti ca vi canusciu…si vi pigghiu vi fazzu manciari ri cani…”. Senza pensarci due volte sciolse la catena dei due pastori tedeschi, grandi come vitelli, che mangiavano meglio dei picciriddi e gli e li lanciò all’assalto. Gli occhi dei bambini che hanno fame parlano e Giovanni con i suoi compagni quella mattina cercavano manciari e trovarono invece la bomba.

E allora tutti diventano cattivi, tedeschi e americani, fascisti e comunisti, grandi e piccoli, femmine e maschi, battezzati e non battezzati. Da diversi giorni tutti erano diventati cattivi, tinti, da quando le sirene non suonavano più, da quel pomeriggio quando passarono le fortezze volanti e oscurarono il cielo, illuminato dalla contraerea tedesca, minchia come sparava quella piazzata sul Ponte della Palma! E Giovanni con gli altri ragazzi non l’avevano capito che quella cosa grigia, coperta, ammucciata dalla terra, vicino al muro di Villa Merlo, era una cosa tinta, non buona e innocente, pulita come il loro piccolo cuore.

Ma mancava tutto, acqua, luce, pasta, pane e loro cercavano qualcosa per sfamarsi, anche se erano senza scarpe e con i vestiti strappati. Giovanni vide brillare quella cosa mezza cummigghiata e pensò:-“…forse è qualche cosa d’oro che hanno perso quelli della villa, la vendiamo a quelli della borsa nera e così possiamo mangiare…”. Giovanni si chinò e cominciò a scavare a mani nude, ebbe il tempo di dire:-“…picciotti…talìati ccà…” e all’improvviso scoppiò il mondo attorno a loro, una vampata ammugghiò Giovanni e un’onda d’aria calda ammuttò i picciotti lontano da lui.

L’inferno di fuoco aveva colpito solo lui, una scheggia gli portò via una mano, la destra. L’aria puzzava di polvere da sparo, di bruciato, di polvere, di terra smossa e pigliava per la gola e poi urla, pianti, sangue, tanto sangue e un cratere, un buco che sembrava l’entrata dell’inferno. La persiana del balcone del Municipio era sempre sbarrachiata, la radio accesa si sentiva sino alla cantoniera, stava trasmettendo un messaggio:-“…oggi 31 agosto 1943 a Cassibile, Siracusa, primo incontro di Castellano con le forze d’invasione per firmare l’armistizio con i nuovi Alleati…”. La guerra era ancora lontana dal finire, ma per quei ragazzi era appena cominciata…

Giuseppe Morreale



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