23 maggio 1992. Paolo Borsellino è dal barbiere. Per il giudice palermitano è un giorno speciale: tra qualche ora atterra il suo amico Giovanni Falcone, torna a Palermo da Roma per qualche giorno. Si vedranno a pranzo; Paolo ha seminato la scorta per andare al mercato del pesce e comprare qualcosa di particolare, poi si è messo ai fornelli. Bisogna festeggiare la candidatura di Giovanni alla Superprocura, la nomina è data per certa. Ma all’improvviso il cellulare squilla. C’è stato un attentato. Un tratto dell’autostrada Punta Raisi-Palermo – quello all’altezza dello svincolo di Capaci – è esploso. E insieme all’asfalto sono saltati in aria Giovanni
Falcone, la moglie Francesca e gli agenti di Polizia: Vito, Rocco e Antonio. Viaggiavano su tre Fiat Croma blindate.
Paolo Borsellino corre in ospedale, ma dopo qualche ora l’amico gli muore tra le braccia. 24 maggio 1992.Dal giorno dopo per Paolo comincia una battaglia contro il
tempo. Ha bisogno di capire, di comprendere cosa c’è dietro alla morte di Giovanni, che è più che un fratello per lui. Entrambi si sono battuti contro la mafia e hanno vinto una battaglia decisiva, istruendo il maxiprocesso. Entrambi sono diventati il simbolo dell’Italia onesta che alza la testa contro il potere di cosa nostra (che scriveremo volutamente minuscolo). Ma Paolo, adesso, è rimasto solo. E nonostante la proposta, partita dal ministro degli interni, di candidarsi alla guida della Superprocura, il giudice coi baffi decide di rimanere in Sicilia.
All’indomani della strage di Capaci, scatta il piano di protezione. Tre le sue abitudini ricorrenti: il lavoro, a Palazzo di Giustizia; la Messa domenicale nella Chiesa di
Santa Luisa di Marillac e la visita alla mamma, in via D’Amelio. Lì, gli agenti della scorta sollecitano più volte – invano – l’istituzione di una zona rimozione. Cosa
nostra ha già in mente l’eliminazione del giudice, negli ambienti carcerari il dott. Borsellino si da già per morto. Il tempo stringe e Paolo si tuffa sulle carte, interroga i pentiti, svela le trame segrete della massoneria in combutta con la mafia e l’alta finanza.
Il 25 giugno nell’atrio della biblioteca comunale, durante un dibattito organizzato dalla rivista Micromega, il giudice lancia degli avvertimenti. Dice di essere a conoscenza di alcune cose, che riferirà “a chi di competenza”. Ma a Caltanissetta non l’ascolterà nessuno. Farà in tempo a scrivere tutto nella sua agenda rossa. Il 19 luglio il boato sotto casa della madre. E la verità resta tutta lì. In quei cinquantasette giorni che separano i due giudici da un tragico e comune destino.
Maria Vera Genchi. Articolo apparso su “L’indipendente” di Giugno – Luglio 2022 in distribuzione in Sicilia
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