Nel numero 27 di giugno 2023 della rivista dell’Osservatorio per le Arti Decorative in Italia (OADI) è stato pubblicato un interessante servizio della bagherese Lisa Sciortino, Storica dell’Arte, direttrice aggiunta del Museo diocesano di Monreale. Il servizio riguarda una delle perle del patrimonio artistico della Città delle ville, “Le ardesie dipinte della chiesa del Santo Sepolcro di Bagheria”, un’opera d’arte non universalmente conosciuta di cui la studiosa, in linea con gli scopi dell’Osservatorio, propone la conoscenza, la divulgazione e la valorizzazione.
Giuseppe Fumia [Articolo] Le ardesie dipinte della chiesa del Santo Sepolcro a Bagheria e l’inedita Mater Dolorosa: ipotesi di studio
La prima pietra della Chiesa del Santo Sepolcro di Gerusalemme di nostro Signore Gesù Cristo nella cittadina alle porte di Palermo fu posta nell’anno 1740, come si evince dall’atto notarile firmato da Stefano Sardo e Fontana del 2 luglio di quell’anno, dal principe don Nicolò Branciforti per dare la possibilità a tutti i contadini che abitavano in quel territorio e a coloro che venivano a villeggiare nel feudo di Sant’Elia, di partecipare alla santa Messa nei giorni festivi e di precetto. A causa della morte del principe, i lavori furono sospesi per riprendere nel 1744 con il sacerdote don Giuseppe Toscano di Casalvecchio di Puglia, in carica fino al 1769. La chiesa fu benedetta da don Silvestro Allone, cappellano curato di Bagheria. Don Toscano, cappellano della chiesa battesimale Maria Vergine ‘della Bagaria’, fu nominato primo Rettore della chiesa del Santo Sepolcro. Qui commissionò e fece collocare cinque tavole in ardesia dipinte ad olio1.
L’ardesia, che è una roccia tenera, facilmente divisibile in lastre sottili, leggere, compatte, di colore nerastro, tende a schiarirsi per ossidazione dal momento dell’estrazione fino ad assumere una pigmentazione grigio chiara. Generalmente considerata materiale di impiego popolare, fu utilizzata anche per pitture di uso domestico, immagini devozionali, capezzali o edicole votive2. La sua fragilità ha fatto sì che molti esemplari, con il tempo, si deteriorassero o si rompessero. Per tale motivo, le opere custodite nella chiesa del Sepolcro di Bagheria, in buono stato di conservazione soprattutto grazie al fatto di non essere state mai rimosse dalle pareti, risultano ancora più preziose.
I cinque dipinti raffigurano soggetti diversi.
La Deposizione (96×73 cm), la sola della serie a soggetto unico, mostra il Cristo esanime, in parte avvolto nel sudario, che divide in diagonale la scena da destra verso sinistra. Mentre tre uomini spostano il corpo di Cristo, Maria Maddalena prega in ginocchio. In basso sono ripresi i simboli della Passione di Cristo: i tre chiodi, la tenaglia, il martello, la corona di spine, i dadi, il contenitore della mirra (?), il velo della Veronica, la spugna imbevuta di aceto. Dietro, la Madonna sorretta da una figura femminile assiste alla scena con dolore. Il dipinto è completato nella sezione inferiore dall’iscrizione PRO DEVOTIONE ET EXPENSIS REV. SAC. D. IOSEPH TOSCANO/ TERRAE CASALIS VETERENSIS ANNO DOMINI MDCCXXXVI e da uno stemma coronato che è ripetuto su tutte le tavole della serie. Così com’è dipinto, lo stemma è piuttosto insolito e sfugge alle regole canoniche e consuete dell’araldica, a partire dalla corona che non rappresenta alcuna dignità nobiliare. Il troncato superiore potrebbe essere dei Pilo, antico casato giunto in Sicilia nel XVI secolo, la cui arme si presenta con campo azzurro, due leoni coronati d’oro, affrontati e contrarampanti ad un albero di pero sradicato sormontato da stelle. Ma la sezione inferiore dello stemma non ha riscontro preciso sebbene rassomigli a quello dei Ranieri, famiglia di Messina estinta alla fine del Settecento. Riguardo al committente Toscano e alla sua provenienza da Casalvecchio di Puglia, si osserva che gli scudi del Comune nonché delle famiglie locali sono del tutto diversi. Forse il prelato aveva uno stemma di famiglia che non risulta nei testi e nei siti dedicati consultati, oppure aveva realizzato uno stemma proprio sfuggendo alle regole dell’araldica e concedendosi diverse ‘licenze poetiche’, cosa affatto sporadica per gli ecclesiastici che componevano la propria arme3. La data riportata sul dipinto, il 1736, dimostra una committenza dell’opera da parte del prelato antecedente all’erezione della chiesa.
Una delle tavole presenti in chiesa raffigura Sant’Elia (127×97 cm), verosimilmente in riferimento alla denominazione del feudo in cui insisteva l’edificio. L’immagine centrale del Santo, accompagnata in basso a destra dal medesimo stemma che si ritrova sul citato dipinto con la Deposizione, è raffigurata come un anziano dalla barba bianca, stante, accompagnato da alcuni suoi attributi iconografici come il libro delle Sacre Scritture e la spada di fuoco.
Dal momento che il monoteismo pareva soffocato e la maggioranza del popolo aveva abbracciato l’idolatria, Elia si presentò dinanzi al re Acab ad annunciargli, come castigo, tre anni di siccità. Abbattutosi il flagello sulla Palestina, Elia ritornò dal re e per dimostrare la vacuità degli idoli lanciò la sfida sul monte Carmelo contro i quattrocento profeti di Baal. Quando sul solo altare innalzato da Elia si accese prodigiosamente la fiamma e l’acqua invocata scese a porre fine alla siccità, il popolo esultante linciò i sacerdoti idolatri. Non appena Elia sembrò avere un attimo di cedimento alle afflizioni, un angelo lo confortò porgendogli una focaccia e una brocca d’acqua; poi Dio stesso gli apparve, restituendogli l’indomito coraggio di un tempo. Ad Elia sono attribuiti anche alcuni miracoli i quali, assieme ai fatti salienti della sua vita riferiti, sono narrati nelle venti scene che circondano la figura del profeta. L’opera è completata in basso dall’iscrizione SAC. D. GIVSEPPE TOSCANO 8 MARZO 1750 13^ INDITIONE.
Santa Rosalia (127×97 cm) ha la medesima impostazione e le stesse dimensioni del dipinto con Sant’Elia. La Santa, in posizione centrale, è ripresa in piedi e accompagnata dagli usuali emblemi che la contraddistinguono: la croce, la corona di rose sul capo che rievocano il nome, la conchiglia del pellegrino, il bastone. L’iconografia è dunque costruita intorno a dei simboli che diventano un richiamo al vissuto e alle vicende della Santa cosicché l’apparente similitudine delle immagini, lungi dall’essere una mera e sterile ripetizione, entra a far parte del linguaggio universale che ha attraversato luoghi e secoli. Proprio il popolo, che è il principale referente dell’immagine sacra, è così in grado di riconoscere la figura rappresentata senza necessariamente essere in grado di leggerne il nome, unicamente guardando gli elementi che la identificano. Nella sezione inferiore dell’ardesia in esame sono ritratti Monte Pellegrino con il porto della città di Palermo e la grotta che accolse la Santa. In basso a destra è ripetuto lo stemma coronato. La figura centrale della Patrona del capoluogo siciliano, assurta a protettrice della città nel 1624 quando furono ritrovate le sue spoglie mortali proprio su Monte Pellegrino con la conseguente liberazione dalla peste che affliggeva la popolazione, è incorniciata da venti piccole scene che narrano momenti della vita dell’eremita.
Sant’Onofrio (127×97 cm) ripete ancora una volta la stessa impostazione e le identiche dimensioni delle ardesie appena descritte. Il Santo, al centro, è raffigurato ricoperto di peli e in preghiera con lo sguardo volto verso l’alto. La leggenda lo vuole figlio di un re, a lungo desiderato, ma che, appena nato, fu indicato da un demonio come figlio di una relazione adulterina della regina. Tuttavia, sottoposto alla “prova del fuoco”, ne sarebbe uscito indenne. Giovane, si isolò dedicandosi alla vita eremitica. Il monaco egiziano Pafnuzio, desideroso di conoscere la vita degli anacoreti del deserto, lo incontrò e trascorse con lui gli ultimi giorni di vita di Onofrio a cui dette sepoltura in una grotta. È, assieme a Santa Rosalia e altri, uno dei patroni di Palermo, dove è ritenuto protettore di chi cerca oggetti smarriti nonché delle donne che cercano marito. Il dipinto custodito nella chiesa del Sepolcro è completato da venti scene della vita del Santo e in basso trova posto il consueto stemma e l’iscrizione S. ONOFRIO RE DI PERSIA ED EREMITA A. 8 APRILE 1747
La tavola con la Sacra Famiglia, di poco più piccola delle altre (118×95 cm), presenta al centro le figure della Vergine, di Gesù volto verso la Madre, e di Giuseppe con il bastone fiorito. La scena è completata in alto dalla colomba dello Spirito Santo e da una nuvola di testine di cherubini alate. In basso è l’usuale stemma nobiliare. L’immagine della Famiglia di Nazareth è circondata da quindici scene concernenti gli episodi più celebri della Loro vita e ospita in basso la lunga iscrizione: IESV ESTO MIHI JOSEPH ET VIRGO MARIA SUSCIPIANT ANIMAM, DEPRECOR INDE MEAM/PER DEVOTIONE, E SPESE DEL SACERDOTE D. GIUSEPPE TOSCANO DELLA TERRA DI CASA/VECCHIO FVNDATORE DEL SANTISSIMO SEPOLCRO DI NOSTRO SIGNORE GESU/CRISTO * NELLA VILLA DELLA BAGARIA A. 20 SETTEMBRE 1744 * .
Le cinque tavole di ardesia, volute da Giuseppe Toscano per impreziosire le pareti della chiesa del Santo Sepolcro, fanno parte da sempre dell’arredo delle navate ma pare assai curioso constatare che a pochi passi dalla chiesa, presso un’abitazione privata che insiste sulla stessa piazzetta prospiciente l’edificio chiesastico, si conservi un’altra ardesia, coeva e affine a quelle studiate sia per impostazione iconografica che per stesura pittorica. Troppo grande per essere un’edicola votiva, secondo una tradizione orale passata indenne attraverso le generazioni, di cui però ad oggi non si trova riscontro presso gli archivi consultati, alcune ristrutturazioni della chiesa avvenute tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento hanno fatto sì che una delle ardesie fosse smurata e ‘temporaneamente’ affidata alla custodia della parrocchiana Maria Chiello. Il trascorrere dei decenni, la mancanza di carte documentarie per la certificazione del trasferimento, il cambio generazionale, hanno fatto il resto. Oggi l’ardesia dipinta con l’Addolorata (89×60 cm) riemerge dall’oblio grazie all’interessamento dei privati che l’hanno ereditata e che, attraverso questo studio, la rendono nota.
L’Addolorata è un titolo con cui viene molte volte appellata Maria Madre di Gesù e già nel Vangelo secondo Luca (Lc. 2,34-35) l’anziano Simeone preannuncia alla Vergine le sofferenze che dovrà inevitabilmente incontrare, profetizzando la passione e morte del Figlio.
Il culto alla Vergine Addolorata si diffuse a partire dalla fine dell’XI secolo ampliandosi nel secolo successivo anche grazie alla composizione dello Stabat Mater, attribuito a Jacopone da Todi, una meditazione sulle pene di Maria ai piedi della Croce. In un primo momento tale culto fu strettamente collegato alla Settimana Santa; poi si istituì una vera e propria festività, originariamente celebrata il venerdì prima della Settimana Santa o dopo la Pasqua ed infine fissata al 15 settembre, in relazione alla festa dell’Esaltazione della Santa Croce celebrata il giorno precedente. A Bagheria, la devozione alla Vergine Addolorata risale al XVIII secolo e alla posa della prima pietra proprio della chiesa del Santo Sepolcro. Una felice coincidenza.
L’inedita ardesia presenta Maria, dall’intenso coinvolgimento emotivo, secondo la consueta iconografia della Mater Dolorosa: uno spadino che Le trafigge il cuore, il fazzoletto tra le mani giunte con dita intrecciate, il vestito scuro del lutto, il viso inclinato e rivolto al cielo. La figura mariana è caratterizzata da una monumentalità quasi scultorea concepita come una massa che emerge dal fondo scuro. Il velo sul capo e il manto nero sono modulati da eleganti pieghe; il corpo presenta una torsione che conferisce naturalezza compositiva (Fig. 8). L’iconografia della Vergine dolente sarebbe stata ideale per un luogo di culto dedicato alla morte di Gesù, in cui è peraltro custodita la riferita immagine della Deposizione di Cristo dalla Croce.
L’Addolorata dipinta rievoca iconograficamente un’acquaforte del XIX secolo di collezione privata5 in cui la Vergine si propone con le medesime movenze, la stessa torsione del busto contrapposta a quella del volto, lo spadino conficcato nel petto e le mani intrecciate che stringono il fazzoletto (Fig. 9). L’immagine pittorica e l’acquaforte, più tarda, mostrano certamente una matrice iconografica comune. La figura bidimensionale di Maria ripresa sull’ardesia ha anche un suo corrispettivo scultoreo nell’Addolorata lignea di Girolamo Bagnasco, realizzata all’inizio dell’Ottocento e custodita nella chiesa Madre di Caccamo6 ma anche nell’immagine in telacolla del Santuario di Maria SS. Addolorata di Corleone e nella statua settecentesca della chiesa Madre di Comiso.
La sezione inferiore dell’opera è oggi priva della pellicola pittorica andata irrimediabilmente perduta mentre la parte superiore lascia intravedere alcune delle scene sacre con le relative iscrizioni. La perdita della cromia, oltre al danno generale per l’omogeneità decorativa, priva anche della possibile presenza documentaria dello stemma ripetuto sulle ardesie della serie nonché della possibile iscrizione che avrebbe potuto corredare il dipinto e certificarne la committenza.
La Mater Dolorosa in esame è circondata da una cornice pittorica divisa in sezioni, in origine verosimilmente ventiquattro, con raffigurazioni della vita di Maria e della Passione di Cristo che bene si sarebbero inseriti in una chiesa dedicata al culto del Cristo morto, qualora l’ardesia facesse effettivamente parte della serie voluta da don Toscano. L’impostazione del dipinto, dunque, è identica a quella degli altri sopra citati e ripropone quella già in uso nel XVI secolo scandendo i laterali dell’ardesia con una serie di riquadri. L’immagine centrale circondata da scene più piccole disposte a cornice non è inusuale nell’arte. Si veda, ad esempio, la tavola del 1540 realizzata da Vincenzo da Pavia e custodita nella chiesa di San Domenico a Palermo7. La Madonna del Rosario, al centro tra un trionfo di angeli, santi e devoti, è circondata da scene sacre dallo Sposalizio all’Annunciazione, dall’Orazione nell’orto alla Crocifissione, dalla Resurrezione alla Dormitio Virginis. Tali scene parrebbero non dissimili da quelle andate perdute sull’ardesia in esame. Un ulteriore documento in tal senso è la tavola di Simone da Wobrek della chiesa del Rosario di Isnello dalla scelta iconografica non dissimile8; oppure ancora il dipinto di Giuseppe Salerno del 1606 della chiesa Madre di Polizzi Generosa che propone al centro la raffigurazione della Madonna del Rosario9.
Le pitture su ardesia, mute testimonianze della devozione, della preghiera, della fede, appartengono a quella dimensione della figurazione che richiama il legame con il mistero divino e costituiscono un corredo significativo sul piano storico, artistico e antropologico oltre che un prezioso patrimonio culturale sa tutelare e custodire.
Lisa Sciortino
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