Il carattere itinerante della sequela dei discepoli di Gesù potrebbe far pensare che basti ricorrere all’improvvisazione per seguire Gesù. Il Vangelo ci ricorda invece che per essere discepoli c’è bisogno di un serio apprendistato che richiede un totale investimento di sé perché ognuno sia «come il suo maestro».
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Somigliare al Maestro non vuol dire però seguire alcuni precetti, ripetere le sue parole o imitarne i movimenti e i modi di fare. Somigliare al Maestro significa piuttosto lasciarsi muovere il cuore ad una conversione integrale, perché nella propria domus interior, che è il cuore, si dia spazio alla parola, ai gesti, ai sentimenti, alla volontà del Maestro.
È nel cuore, infatti, che secondo Gesù e la visione biblica si prendono le decisioni, si sceglie chi si vuole essere, chi si vuole diventare; è lì, in quel luogo intimo e nascosto, che sbocciano le emozioni, si coltivano i sentimenti, si affina la postura con cui stare al mondo, si cesella la propria vocazione e si tessono le alleanze fondanti, di amicizia e di amore. Questo autentico motore dell’agire, vera casa dell’essere e dell’accogliere, è però «un abisso» (Sal 63/64,7), un luogo profondo, dove è possibile custodire sia ciò che ossigena e dà vita, sia ciò che intossica e fa morire.
Gesù invita pertanto i suoi discepoli alla cura della propria interiorità, cioè a saper discernere cosa accogliere nel proprio cuore e ad apprendere l’arte dell’educazione dei sentimenti. Questo essere “ben equipaggiati” (come indica il verbo greco katartízo) permette non solo di trovare il proprio personale cammino ma anche di saper indicare la via agli altri (come indica il verbo greco odeghéo). Luca ce lo mostra nel secondo volume della sua opera, in At 8,26-40, quando ci presenta il diacono ed evangelizzatore Filippo come un uomo docile alle indicazioni dello Spirito Santo e capace di indicare la via a uno straniero in ricerca e di accompagnarlo a incontrare nel battesimo il Cristo Salvatore.
Questo essere ben preparati è paragonato da Gesù alla capacità di vedere. Solo chi vede la luce può accompagnare chi è ancora nelle tenebre e solo chi ha avuto occhi capaci di vedere la realtà con nitidezza può accorgersi quando il proprio occhio non è più limpido, detergerlo e aiutare anche gli altri in questa purificazione dello sguardo. Con linguaggio paradossale, Gesù svela quel grande tranello del cuore umano che è l’ipocrisia: guardare la pagliuzza che è nell’occhio del fratello e non accorgersi della trave che è nel proprio occhio significa voler denunciare i limiti altrui e coprire i propri per sminuire gli altri, innalzando e vantando se stessi, pur sapendo di non essere affatto migliori degli altri.
Gesù insegna che «ogni albero si riconosce dal suo frutto» e che ognuno estrae dal proprio cuore ciò che vi ha immagazzinato: «l’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male». Infine però, come dai frutti si riconosce l’albero, così dalle parole di un uomo si conosce il suo cuore.
Le parole sono la manifestazione della propria interiorità. Il cuore è paragonato da Gesù a uno scrigno dove si custodisce un tesoro. Se il tesoro che custodiamo in noi è la parola salvifica del Divino Maestro, le nostre parole saranno anch’esse salvifiche: costruiranno ponti con gli altri, tesseranno relazioni edificanti, saranno veicolo per attrarre i cuori all’accoglienza del Regno di Dio.
Commento di Rosalba Manes, consacrata dell’Ordo virginum e biblista
Rubrica religiosa a cura di Giuseppe Fumia
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